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mercoledì 15 febbraio 2017

Ai primi Fiorellin di Primavera

Que’ primi fior azzurri che si schiudono
in questi dì di febbràiö pe’ i dossi
della campagna, e illudono
l’onde dei fossi,

è da piccìn che li sento chiamar
occhi-della-Madonna, tanto sono
delicati e pii, un mar
che apprende il suono

della ventura Primavera bella.
Quante volte io cercai prenderli in mano!
Ma cadde il fulcro della
lor Vita. Invano!

Occhi di bianco-azzurro ciel di gemma!
Li scorgo sempre su’ questi sentieri,
rinascono con flemma,
e son leggeri,

ognòr ne’ i stessi capei di prima erba,
tra i gambi de’i ranuncoli che si alzano,
e più che impazzita cerva
nel vento danzano.

Sembran dassenno occhi di Infinito,
mi somigliano a molti sguardi eterni,
oltre il nembo ingrigito
di questi inverni;

ed essi allora mi guardano attenti,
occhi al mio occhio, ombre ridenti di spene,
nei miei alti sentimenti,
per le mie vene.

Non-ti-scordar-di-me li chiama il volgo,
parola d’aura amorosa e sottile,
e io in questi fiori accolgo
il far di aprile.

Non-ti-scordar-di-me li chiama Amore,
tra i mazzolìn che svolazzano al vento
or gettati da un cuore,
or da tormento.

Ma io ritorno a’ i miei dì passati e quieti,
della mia infanzia, quando era il mulino
a muover flutti lieti
su’ un fiorellino,

quando al crocicchio di vecchia cascina
saltavo su e giù pe’ il pìccol muretto
di un’erma chiesettina
pe’ il mio diletto,

quando ignoravo patimento e duolo,
il bene e il male di codesta terra,
scorgendo gli augèi in volo,
e non fu guerra.

E tu, mia Primavera, che in ricordi
mi conquidi il cuore… che hai? Che v’è?
Se tu mi assordi,
non ti scordar di me!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Louis Aston Knight, A Summer Afternoon, Tardo-Romanticismo statunitense, Seconda Metà del XIX Secolo



In Dì di Martedì XIV del Mese di Febbraio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo e di Grazia AD MMXVII.

venerdì 20 gennaio 2017

Elegia a un'Ombra nella Notte

È buio come di Notte, è in ciel buia Luna,
e burrascoso vento, e un po’ oltre, gelido
nevischio, e tetra nebbia.

Donna cieca è Natura in tanta tenebra,
stretta-bendata, è fanciulla al patibolo
dei fior decapitati
da folle inverno,
e non attende che il capestro ceda.
Rimarrà appesa co’ i piedi sul vuoto!

Chi era? Era solo una ribelle insana:
chiedeva pane per le umide strade,
dormiva sulla polvere,
e non è mai esistita.
Vento! ripeti a bassa voce il suo
nome!.... Se mai ti sentissero, tosto
morir potresti
condannato alla gogna.

Sentinella!.... Ombra, chi è là?.... Ombra null’altro!
Ombra senza uomo, né corpo… né cuore,
spirito vagolante tra le fregole
di lupi e streghe.
La senti?.... Si avvicina! Muti passi
rendono eterno il fragòr del silenzio
lievemente schiacciando a terra il ghiaccio
dove or scìvolano il ciel e sue nubi.
Dio non sa pattinare.

L’ombra non è uno spettro, non è specchio
di membra… e denti, e fauci. Ma è una belva,
un Titano che irride la päura
dei timorosi ánimi.
Su qualche riva di un fiume c’è un uomo
che gli abissi contempla, e non ha più
il suo riflesso. Di’: ha perduta l’Anima?....
Sentinella!.... Rispondi!

Forse i Titani già marciano contro
la sanguinosa ambrosia del Calvario,
ombre tra le ombre in ombra sola, è Sàtana
che chiede sangue e Morte.

Avete eletto voi, o Popoli, i sommi
capi di queste corrotte tribù.
Tutto prosegue, cambia… e si ripete.
Resta Lucifero. Ha indosso l’èfod.

E in così tanto silenzio or singhiozza
la lieve brezza che sentiva Elia.
Maledetta la stirpe delle serpi!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

William Turner, La Barca di un Pescatore in Notte di Luna piena, Romanticismo classico inglese, prima Metà del Secolo XIX



In Dì di Venerdì XX del Mese di Gennaio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo e di Grazia AD MMXVII.

lunedì 2 gennaio 2017

Notti bianche - Le Ombre

Al fuoco rigirandomi più volte
qui ansimo per la tosse e per respiro
inquïeto. Il malanno urla e non placa
la bramosia del suo istinto di Nulla,
e la ferocia sua.
E or dalla mia finestra vedo piovere
le nebbie della sera; e i focolari
delle stelle stan muti, ciechi… assenti
a rendermi più cupa la orba stanza.
Mi fan päura le ombre.
Vestono, infatti, le fiamme dei Sogni,
e vagano fameliche dovunque,
come lupi selvaggi della steppa,
e mi attaccano in branco a ogni starnuto,
quando tossisco.
La mia Ánima giace solitaria.
E guardo un’ombra che più non ha un nome:
la solitudine.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Louis Remy Mignot, Tramonto, Pittura, Romanticismo statunitense, seconda Metà del Secolo XIX


In Dì di Lunedì II del Mese di Gennaio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo e di Grazia AD MMXVII.

venerdì 30 dicembre 2016

Etroubles - Carme elegiaco di un Viaggio, ossia Dei Monti, della Giovinezza e dei Titani

A te, último dì di mio vïaggio,
che sotto il Sole splendi lungo i monti,
giovane e fresco più di alpine fonti,
che canti il madrigale della gioia
di mio perduto giugno, quando sbocci
sopra la mia cadente giovinezza
come una rosa immacolata che è
lieve e in fiamma, e all’alba, rossa, aulente,
profumata di cera d’Orïente,
a te, último dì di alpino Fato,
nel segreto del vespro in bruta ansia
con questa cetra di Sogni e ricordi,
sì, solamente a te io
canto. E il nulla che sta dinnanzi a me
non ti riporterà se non un’eco,
effige prepotente di una immane
montagna bella, e cara, con la pietra
millenaria e il cristal di neve, l’etra
che seppellisce sul nascere questo
insolito füoco, o vetta mia,
rimasta viva nella Pöesia.
Ricordi?.... Era il mezzodì, e le cime
da lontan brulicavano di ghiaccio,
il superno dominio dell’inverno,
indistruttibile, immortale, eterno;
e tu, o cima, eri lì, sopravvissuta
alla bufera omicida di tue
sorelle, le compagne dell’estate
nel roseto che andava solitario
a profumare questa valle intera
perché eri come una rosa di maggio,
tra i pascoli sereni e il bel foraggio.
E tacque il cuore, o Sole, ora perduto
che mi hai fatto gustar la gioventù,
quando io miravo la direzïone
sul San Bernardo d’antica legione,
Hannibal che passava infurïando
con gli elefanti, i mostri del deserto,
e l’imperiale titanico serto,
e re Carlo che scese per la guerra
rapendo a sé questa italica terra.
Sentii la marcia dei fieri oricalchi,
tra la fuga dei cuccioli e dei falchi,
battere i denti di prodi guerrieri
che dagli ermi dell’Africa giungevano
in Italia per essere qui vindici
oltre l’eternità dei monti stessi
delle subìte pene in cruda pugna.
E con te camminai sui loro passi,
sulle orme secolari fatte épica
d’Eroi e di cavalieri, presso le ombre
dei più remoti castelli di orgoglio,
laddove in altro tempo i miei compari
Trovatori cantavano di te,
vetta mia, o Sole, di mia giovinezza,
con l’arpa che tuttora il ciel carezza.
Ma mi mancava il lor coraggio. I prodi!
Ambir l’eterno di queste montagne…
pensier supremo, incolmabile brama!....
E con te proseguii su’ i biechi, órridi
speroni del Titano della Corsica,
il console perenne che ambì al trono,
e che Eüropa sfidò e ne infiammava.
E fu felice?.... Morì esilïato,
e tal son io da te, o monte perduto,
dove si accese l’ultima scintilla
di questa gioventù che si matura
e che decade nel tempo in cui è vano
gioir, amare, sentir i desii
del cuore che ormai pensa, attende e medita,
dove nient’altro che Arte è la mia Sorte,
e desiderio o Sogno è solo Morte.
Udii trillare i fucili del Destino,
e il mio cuor ne cadeva al suol, supino,
ferito in mezzo, per sempre. E ch’io feci?
Lo volli maledire… questo Fato
che scherzando e pungendo e bestemmiando
univa Sogni impossibili ai fiori,
e a’ stelle tutte, e mi fece incontrare
per un’ultima volta il guardo tuo,
cima di gioventù, o Sole, o montagna,
quand’io anche ti rimembro in mia campagna
da te lontano ormai perpetüamente,
laddove ogni tuo valico è assente,
anche se ti contemplo tanto sei
immensa, quando in melliflua giornata
vesti dovunque l’orizzonte etesio
delle tue rocce e del tuo ghiaccio cesio;
e il canto mi è di sfogo…. Sfogo. Grido!
Per dirti quanto a te ambivo e tacevo,
ascendere i tuoi sassi e regnar fiero
sopra le tue maree di nubi e nebbie,
più come un re di lupi che come uomo,
fondermi pazzamente in ogni atòmo
tuo, e come i prodi lasciar la mia traccia…
per far conoscere a Dio un sacrificio
sublime e mesto, temerario e improbo,
un olocausto che sen va ben oltre
le vittime di Hánnibal, di Carlo:
a te rinunzïare, o gioventù,
ricordo di un dì di follia che fu.
E non provai nemmeno a rifermarti,
a richiamarti indietro, udii vergogna…
come fermar la roccia che è già immobile,
ma che sotto i miei piedi frana e grida?
O cima! e tacqui, tanto urlar sarìa
pur stato vano, scalar, farti mia,
ergermi al di là dei Cesari invitti,
e il Destin per cui nacqui ebbe il suo corso,
donde io stillo pur sempre un mio rimorso.
E fu il meriggio. E poi giunse la Notte.
Ricordo! I lumi del tramonto alpino
illuminavano i tuoi occhi di fiore,
il tuo crine di petali leggiadri,
il volto tuo scolpito da Natura
perfettamente, e il tacente roseto
di altre montagne fatte come rose,
dove l’unico fosti, un fior rimasto
tra l’argento di brine, e l’oro e il fasto
dei cristalli di neve e i ghiacci eterni,
e il labbro e l’occhio mio stavano inermi.
Vêr te guardavo, a’ una baïta antica,
dove il beffardo Córso ebbe il ricetto
per la Notte in cui fu a varcare l’Alpe
immane del San Bernardo, e dormì
ivi su’ un letto di paglia e di fango,
eloquente Anticristo nascituro
nell’etere montano ardito e oscuro.
Ma a che bisogna éssere Titani
e più malvagi se si vuol sfidar
il Destin tutt’intero, e le barriere
che questo Fato oppure Iddio ne pone?
A che ghermir con la possa, ora un nome,
ora la gloria, qua pianto e là Amore?
Ricchezza e allori? A che vano è il desio?....
Dimmi, o mia vetta, mio Sole, perché
chi osa, conquista e chi è umìle si acquieta
riconoscendo polvere i suoi Sogni,
null’altro che menzogna le chimere,
nient’altro che ombre i sensi delle sere?....
E nel tramonto piangeva il mio cuore,
segretamente, avvolto in questa cura,
sopra tue vette e la possente altura,
con te d’accanto, dovunque, al mio fianco,
soffïando come arpa di Óssiän
sugli spiriti di ogni invitta schiera,
cima di questa valle… dolce valle,
dove sognavo, mirarti là, all’arco
de’ i trïonfi di un Cesare, e là, al buio,
sotto l’immensa volta, posar mio
volto verso una tua pietra a’ tutt’ore,
e per un solo áttimo di ardore,
rapirti un soffio… un soffio a te soltanto
che il Sogno non può dir, nemmeno il canto,
un soffio del tuo vento prepotente;
e da lì contemplare quel Crepuscolo
che era selvaggio e anche incontaminato
con le sue rosee tinte tra le faüci
di tue montagne, vederlo in un quieto
abbraccio. E il Sogno fu. E venne la Notte.
Perché, o Dio, mai non posso ambir, sognare,
essere giovane, e felice e lieto,
e scalare la vetta che ammirai
oltre ogni umano senso dell’onore
e di ogni orgoglio; e dir «Ti prendo, oh vetta!»,
far vero il frutto del sonno irrequieto,
oltre ogni solitario istante mio?
Perché… perché mai, dimmelo, oh tu, Dio!....
Perché Tu ti diverti a porre a’ miei
passi da sempre impossibili monti,
per cui nemmen la Fede mi è d’aiuto
dov’io scalandoli altro non vo’, niente,
che raggiungere il tuo vasto infinito
e sublimarmi nel Sublime alpino?....
E taci… come hai taciuto allorché
Hannibal ne varcava l’Alpe in guerra,
e Carlo cinse la corona ambita,
e il folle volle il mondo nelle mani.
E taci… sempre, eternamente muto,
e so che esisti e che regni sul Fato.
Ma non capisco più questo silenzio
che per dolore mi par fatto assenzio.
E tu, mia vetta, non saprai mai… mai
qual furïosa battaglia ho nel cuor,
tra impavidi rimorsi e pianti osceni,
i Titani si sfidano tra’ Spiriti
di quest’Anima mia che sogna e spera,
mentre soggiunge sì svelta la sera.
E tutto fu sepolto dalla Notte…
mia gioventù, non resta che la Notte.
Ma è un regno troppo oscuro
per essere compreso.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Jacques-Louis David, Il Primo Console Napoleone varca le Alpi al Gran San Bernardo, Neo-Classicismo francese, 1801



In Dì di Giovedì XXIX, rivista in Dì di Venerdì XXX del Mese di Dicembre dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI.

venerdì 23 dicembre 2016

Intorno è il Nulla

Trascorre come foglia la mia Vita
su un freddo lago di onde, e ghiaccio e neve,
eternamente appassiti gli sguardi
suoi, dondolàndosi al vento irrequieto,
e intorno è nulla.
La campagna di inverno si riposa,
e la terra che germoglia le rose
ormai rigùrgita ànime di nebbia
dov’io passo, sospiro, sogno… spero,
e intorno è nulla.
Il mio cuore ha finito di pensare,
e fuggire vorrèbbe dai suoi íncubi,
annegare nel vacuo di una Notte
che non mi dia più le chimere attese,
che non mi illuda con i suoi sorrisi,
vorrei vìvere e… éssere il folle arreso
che proclama: «Morite! oh Sogni miei!»;
e intorno è nulla.
Dio! Non m’hai ancora detto qual è, ov’è
il mio Destino.
Forse ho confuso i miei Sogni con quelli
dell’Eterno. Fors’anche pensai eterni
tali Sogni per credere non fòssero
mio anèlito. E in cotanta confusione
intorno è nulla.
Nulla… solo il mistero.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Vernet, L'Ultimo Granatiere di Waterloo, Tardo-Romanticismo francese, Seconda Metà del XIX Secolo



In Dì di Venerdì XXIII del Mese di Dicembre dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI.

venerdì 18 novembre 2016

Harold

Fatàl fiordo! Le brume ora scendèvano,
appena dopo l’alba, a ricoprìr
i freddi monti.
Titànica la Notte fu sconfitta,
debolmente, dall’ìri dell’aurora;
il Sole pàllido
vinse la Luna della tènebra orba,
come Eròe rifulgente presso Mìdgard
che vèndica gli Dei.
Allora nulla miràr si poteva
se non che ombre, ombre oscure, tenui, orrende,
e v’era immane gelo…
brina di Morte.
L’àëre vagabondo disfidava
le cieche rocce delle antiche vette,
e inseguiva l’Autunno.
La fremente rugiada del mattino
i rami ignudi lambiva, impazzita
nel dàr bacio alle querce,
e ai faggi, e ai sàlici, a tutto il vivente.
Ma era tempo di caccia,
e tetre impronte s’aggiràvan lente
per le terre dei boschi consacrati
un dì agli Dei degli Avi.

Hàrold, il cacciatore del villaggio,
a inseguìr stava, dunque, un cervo,
con Hùndig, il suo cane - egli, il fedele! -
con l’arco sulle braccia,
e i dardi alla cintura,
con un manto di lupo sulle spalle,
e la barba che nera come Notte
si confondeva con quel pelo infame,
trofeo di caccia,
il pugnàl lungo i fianchi.
Hàrold, il cacciatòr con folto crine,
scrutava ovunque, tra le felci e i ceppi,
con gli occhi azzurri di neve glaciale,
e l’ombra sua alta;
e Hùndig, il cane fedele, fiutava
seguendo il fresco sangue della vìttima
lievemente piagata.
Ecco allòr che un cerbiatto appare inerme,
leccàndosi la zampa appèn ferita!
Hàrold lo scorse, e prese l’arco e un dardo,
e la mira; e schioccò.
Così la freccia colpì il cuòr del mìsero
cervo, che urlando a terra cadde e morto;
e Hàrold, il cacciatòr d’Ànima fredda,
s’avvicinò co’ il cane scodinzolante:
prese un pugnale, e scorticò la preda.
In tal guisa ei trascorse
la mattinata.

Hàrold, il cacciatore del villaggio,
dopo l’ambita gesta, passò il freddo
meriggio di novembre
tra le alte nebbie
a risolcàr le sacre e patrie terre
dei villaggi vicini, ove ei vendé
alcune carni, le più buone e ambite
del cervo poveretto,
trattenèndone le pelli e le cosce,
e per avèr in cambio e sale e pìccoli
fasci di legna
che in sulle spalle mise, egli, il possente,
senza fatìca, né sudore e duolo.
E Hùndig, il cane fedele, perenne
lo seguiva, non prima, però, che egli
avesse divorato il cuòr del mìsero,
vìttima della caccia.
Frattanto in uno dei villaggi v’era
una fàïda malvagia e spietata:
i contendenti stàvano dinnanzi
con sguardi biechi,
e pugnali affilati,
entrambi giovinotti - troppo giòvini! -
e nel nome di Wòtan si battèrono
per vendicàr lo sposalizio sacro
che un dei due tradì.
Hàrold, il cacciatòr e freddo e cìnico,
li stette a contemplàr finché un di loro
non cadde a terra piagato su’ un fianco;
poi ei si scosse e andò altrove.

Fu un dì per queste leggi orbe e selvagge
che Hàrold pensò farsi cristïàno,
e seppellìr gli Dei degli Antenati
nel vespro dei ricordi.
Hàrold, il cacciatore, l’Eroe, il grande!
Hàrold, il dèbole, il folle, il cristiano!
Fu battezzato da un mònaco ànziano,
e con lui la sacra acqua sfiorò sua
moglie, la figlia e il figlioletto pìccolo.
Ma anche se Òlaf era il re,
e i fiordi èran di Cristo,
molti al villaggio suo ancòr lo schernìvano.
Può un guerriero parlàr di Pace e Amore?
Di Pietà un cacciatore?....
Hàrold! Il traditore degli Dei!

Raggiunse ei il suo villaggio in vêr la sera,
e presso il legno della sua capanna
posò i fasci che stàvan sulle spalle,
e prèsone qualcuno, allòr, lo ruppe;
così varcò la soglia, e diede il sale
nelle mani d’un servo
che si inchinò.
Poi Hàrold, dunque,
salutò con un abbraccio la moglie,
che allungò le sue braccia al baldo collo
del prode sposo,
rapèndone anche un bacio
dalle virìli labbra, e
co’ un bacio in fronte la figlia, e da terra -
Hàrold, il dolce padre, il buòn marito -
sollevò il figlioletto.
E il focolare era acceso, era caldo,
e Hùndig, il cane fedele, si mise
a lavàrsi e a grattàrsi presso il fuoco,
la coda egli agitando
al sorriso che il bimbo gli faceva,
quasi aspettando la carezza ambìta
che tosto venne;
poi si mise a sedère presso il tàvolo,
anch’egli per attèndere la cena.
Ma gli occhi della moglie e della figlia
mal trattenèvano una cura, o un pianto;
e Hàrold decise di fìngere - e molto! -
che non se ne accorgeva.
Non volèva mai dire,
mai! la prima parola!

E venne il tempo di desinàr lieti,
co’ il fuoco in scintille dianzi agli occhi
di tutti, che assai chiari rispecchiàvano
i rigùrgiti delle fiamme eterne
di Loge, il Nume astuto.
Hàrold, il cacciatòr della famiglia,
dopo avèr benedetto e carne e pane
nel nome di Gesù, e poscia che gli altri:
«Amen!» rispòsero,
prese la ciòtola e spolpò la preda,
con le dita che tagliàvano i nervi
strappàndoli - esse, le robuste posse! -
con le movenze quasi d’un cantòr
con l’arpa bàrdica,
e côlte nella màn le carni cotte,
e avvicinàndole alle maschie labbra,
le divorava lentamente, quasi
gustando a lungo il sapore selvaggio
della foresta.
Hùndig, il cane fedele, aspettava
dalle màn dei padroni e nervi e avanzi,
famèlico inghiottendo,
ed Èrik, il figliuolo,
attendeva che sua madre gli desse
la carne già spolpata
co’ il pugnale del padre.
Ma tanto, eterno, perenne silenzio
stranamente regnava;
e Hàrold co’ i suoi occhi enormi e spalancati
tra le fosche lòr ciglia
su chiunque posava immobilmente
lo sguardo interrogativo e perplesso,
quieto, tranquillo, calmo,
aspettando qualcosa,
una parola, una domanda, un detto;
e così passò l’ambita cena.

Hàrold, mangiate le carni e bevuto
dal corno, allora, osservò che la figlia
stava in muto e silente e ascoso pianto,
e che la moglie a lei volgeva sguardi
di quiete e di conforto.
Wùlf! Dannato signore del villaggio!
Egli che ancòr credeva a’ i vecchi Dei,
signorotto malvagio, e bruto e ricco,
della stirpe più nòbile di Mìdgard,
ei approfittando della nota assenza
di Hàrold, il cacciatore mattutino,
appena dopo l’alba
osò varcàr quèl sacro focolare
privo dell’uomo, il prode,
e con lusinghe finte, e finto Amore,
e minacciando ovunque, il ferro in mano,
chiese la mano della figlia di Hàrold,
compràndola volendo come sposa
tant’ella era sì giòvine e serena;
e con bruta violenza
lì spaventò le donne,
pur dai suoi fidi circondato e amato.
Se la fanciulla non fosse mai stata
sua, il prezzo sarìa stato
il tòglier loro la Vita e l’onore.
E così minacciò incendio e massacri,
dicendo poi che gradiva un responso
entro due giorni,
e bestemmiò,
e infamò il Cristo.

Hàrold, il padre, il marito, il guerriero,
udì quel che successe dalle labbra
della pàllida moglie,
e più d’un lupo a digiuno da molto
trasalì orrendo, ei fingèndosi vìttima
inerme il crudo Wùlf;
e benché la sua donna trattenèr
pur l’avesse voluto,
egli si liberò, e a forza uscì via,
nella destra brandendo il suo pugnale,
agitandòlo al vento e furïòso
come un predone dei fiordi più freddi;
e correndo ei si mosse
in vêr il focolare
del bruto Wùlf,
vendetta egli giurando,
e non pietà:
strappàrgli il cuore e darlo in pasto a’ i cani,
seppellirlo per sempre nella Notte
della Morte perenne.
Ei lo giurò.

Neve! Càndido mostro e Dea del verno!
Ella aveva due figli: Brina, il primo,
il secondo Nevischio.
La fanciulla regnava sulle prime
ore della mattina, con le nebbie;
il giovinòtto, sul meriggio e il vespro,
entrambi, vicendevolmente, in lite
per il dominio del gèlido autunno,
come truci guerrieri
dei sacri fiordi,
Brina, Valchiria irriverente e cruda,
Nevischio, tuono di Dönner tremendo.
E la lite va avanti,
düèllo ne diventa,
contesa e guerra:
sempre più fredda, Brina urlando inghiotte
il mattino e la sua alba, e il primo giorno,
or più feroce Nevischio ferisce
il tramonto e la sera;
finché non vièn l’inverno, e madre Neve
gli spìriti irrequieti agendo placa,
la sua Furia scagliando a’ terre e a’ boschi,
ovunque, e i figli suoi
impàrano da lei…
impàrano a ghiacciare.

E mentre Hàrold, il cacciatòr bieco,
correndo si volgeva al focolare
del crudo Wùlf,
Nevischio v’era a coprìr di suo manto
gli orizzonti selvaggi e le campagne,
e le foreste irsute,
profetizzando ei forse il sopraggiùngere
pròssimo della madre e di sue Furie.
Nevischio co’ un abbraccio scüòtèva
le spoglie frasche dei làrici ossuti,
e dei fràssini antichi, e le betulle,
le querce figlie d’Ygdrasìl, il Fato,
caverna delle Norne
figliuole di Erda;
e ululava co’ il vento e con i lupi,
pianto freddo di Dei perduti e illusi
dal Potère dei patti
del saggio Wòtan,
il Dio dall’occhio solo,
e ululando ei batteva le capanne,
e i focolari, i sentièr, le fucìne,
a terra rilasciando uggioso fango
e gèlide pozzànghere.
Nevischio silenzioso accompagnava
la bufera del cuore del buòn padre,
Hàrold, il cacciatore offeso e irato,
che tanto stava in còllera
che ei non prese con sé
Hùndig, il cane fedele e spietato,
ma soltanto un pugnale,
solamente vendetta.

Wùlf, il malvagio signore, il furioso,
giòvine baldo anche più di Sigfrìdo,
lieto era e divertito
dopo il banchetto nel suo focolare,
e àvido d’oro qual empio Alberìgo -
il nano che spogliò
le fanciulle del Reno -
ei accolse da lontano ora un mercante
della stirpe varèga, e ricco assai,
e circondato da tanti guerrieri,
il famèlico sguardo concentrava  
sulle pregiate merci
che il contento visitatòr offriva:
tappeti d’Orïènte, argentei arazzi,
icòne di Nòvgorod,
pellame di tricheco, antico sale;
e i servi se ne andàvano e venìvano
con questi oggetti in mano, e con gli scrigni.
E Wùlf, il crudo,
indagava ogni cosa, ogni valore,
e preparò la borsa da gettare
come paga al mercante -
una miseria, dopotutto, un furto! -
e per intimorire, molte volte
sfiorò il pugnàl.

Allora giunse Hàrold, l’impulsivo,
con una lama in mano e tanto iroso,
e sùbito gridò
contro il malvagio.
Ma Wùlf comprese, e diede cenno a’ i prodi
suoi guerrieri che tosto lì brandìrono
le lunghe spade.
Se non avesse squillato da lontano
una tromba solenne,
Hàrold sarebbe stato trucidato
chè tanti èran quei crudi,
e bene armati,
e nessuno, nemmeno quel mercante,
oppòrsi osava al fàr scòrrere sangue…
sangue di un padre buono, d’un uom saggio
offeso da un signore.
Ma la tromba suonò,
e cambiava il Destino.
Fu Dio! Lo volle!

Wùlf, udìto lo squillo, or preferì
risparmiare l’offeso cacciatore,
e placando co’ un cenno ànimi inquieti
dei suoi compari,
e allontanàtosi Hàrold, l’irato,
fuòr del suo focolare uscì, e venìrgli
incontro ei vide e cavalieri e armìgeri
su bruni palafreni
quasi da guerra,
e su’ un cavallo un mònaco vecchietto,
e un nòbile balivo della corte
di Òlaf, il re;
e ivi immediatamente accorse il pòpolo,
donne, bambini e vecchi,
e il cortèo sempre più si avvicinava
proclamato da squilli tumultuosi
di trombe e corni.
E allorquando i messeri altèri giùnsero,
dal suo destriero il balivo or discese,
e senza poi curàrsi di Wùlf, d’altri,
e d’ognùn dei presenti
proclamò che Òlaf, il re, desïàva
che i sùdditi suoi fòssero cristiani,
e abbandonàssero e Dei, e leggi e usanze,
pena la Morte.
E aggiunse ei che un mònaco
lo seguiva per dàr fede in Gesù,
e che egli stàr doveva nel villaggio
a battezzare e a convertìr i bruti,
e con guerrieri al fianco
pronti a punire.
Niente fàïde! Niente più vendette!
Hàrold era basìto,
Wùlf adirato.
Il primo si domandava: «E i soprusi?»,
Wùlf meditava infamie,
ma co’ il labbro giurò rispetto a Iddio,
e dopo singhiozzò
qualcosa a’ i suoi guerrieri.

Il mònaco discese dal destriero,
e verso il Cielo alzò la Sacra Bibbia
che aveva in mano.
Or Hàrold si avvicinò a lui, e gli prese
le sacre, ambite, divine Scritture,
e fissàndolo in volto
con duri colpi d’occhio e ligio cuore
schiuse il miniato libro.
«Che lingua è?» ei sibilò.
«È Latino, figliuolo» disse il mònaco.
Hàrold, il cacciatore del villaggio,
fece un sottile ghigno,
serrò il miniato libro con possanza -
onde partì una lagna furibonda,
un freddo colpo che sobbalzàr fece
tosto il prelato - e
poi come tutti,
si allontanò.
Perché il Latino? Ei leggeva sol rune,
e di Cristo sapeva nello stesso modo
in cui piccìno ei seppe delle saghe:
canti e racconti al fuoco,
una preghiera propizia alla caccia,
Cristo, il guerriero, che più di Frey batte
gli Spìriti del Male e del dolore,
Sàtana, bruto serpente di Mìdgard.
E ora? Un mònaco giunge
che ignora e rune, e saghe… e miti e gesta,
e che ovunque impone.
Gesù? Perché?....

Hàrold passò la Notte e insonne e muto,
rimembrando ei le pèrfide vicende
in sul tramonto:
Wùlf, il malvagio, che ambiva sua figlia,
e i cavalieri del re, e il vecchio frate;
e inquietamente
volse il pensiero alla caccia dell’alba,
còrrer pe’ i boschi con Hùndig, il cane
spïètàto e fedele,
còrrer su’ i fiordi dei padri e dei nonni,
per quelle vette dalle quali un dì
piccino contemplava
l’eròïche e remiganti alte dràkkar
di guerrieri ricolme e di predoni
muòversi co’ i remi
e nell’abbraccio del gèlido vento
verso incògnite terre e ignoti lidi,
verso Occàso e Orïènte,
per fàr conòscere a’ miseri ignavi
la truce possa di Dönner, di Wòtan,
per saccheggiare i monasteri inermi
e trovàr gemme
per i crini delle figlie di Freya,
fanciulle sorridenti al Dio d’Amore,
e a’ sposalizi….
Dràkkar, fulgenti Mostri di onde e mari,
protetti dagli Dei delle contese
eterne e della guerra!
co’ quegli enormi remi, oscuri e crudi,
e quelle vele temute dovunque,
perfino da Bisanzio,
che solcàrono il Volga,
e andàrono lontane, oltre gli abissi
delle onde delle serpi concitate
dell’Ocèäno,
Èrik che fece sue, terre feconde
di vino e di gioia!
Dràkkar, fulgenti!

Hàrold, il cacciatore del villaggio,
prima dell’alba uscì di sua capanna,
co’ arco alle spalle, alla cintura i dardi,
con il pugnale.
Hùndig, il cane fedele, ‘l seguiva
con lento passo e fiutando tra nebbie
sopra le brine.
E la caccia fu breve:
la preda cadde pochi àttimi dopo,
piagata dalla freccia infurïàta
dell’uomo, il prode, e lacerata al petto
dall’altra belva.
E Hàrold lì la spellò e le rapì il cuore
che tra le fauci di Hùndig poi ricadde
come ricompensa ambìta,
e sanguinante - ell’era un alce giòvine -
la mise sulle spalle e la portò
altrove, nei vicini
villaggi pe’ il commercio;
e così egli trascorse la mattina,
muto e turbato, con l’ira nell’ànimo
suo, non placati i sensi di vendetta
e l’illusa sua fede.
Poscia ei si volse verso un sacro bosco,
or perduto e sepolto, con il cane
fedele, Hùndig, sempre alle sue impronte
che più volte tentò fare ritorno
o sul campo di guerra, la sua caccia,
o verso il lòr villaggio,
ma pùr invano.
E giunto nella sacra e antica selva,
Hàrold sedette su una rozza roccia,
e intorno contemplò:
le vecchie rune scolpite da mani
di bardi e di guerrieri in sul chiaròr
sacrale della Luna eterna e piena,
alla tenue ombra del vischio pallente,
foglie di antichi filtri, e medicina
pe’ i màl del corpo e dell’Ànima inquieta.
Rùniche pietre che ancora narràvano
le gesta degli Dei, i patti e il sapèr
di Wòtan, la beltà di Freya, la Dea,
l’incògnito Wallhalla, la dimora
delle ombre degli Eroi!
Rùniche pietre che ancora narràvano
le bieche posse delle alte Valchirie
che, come lampi, scendèvan da’ nembi 
a rapìr l’Ànime
degli sconfitti,
e che lodàvano il nome di Wòtan,
padre della regina, di Brunnhìlde,
e delle stirpi dei prodi guerrieri!....
E Hàrold tra queste rune ne vide altre,
altre da lui scolpite, esse narranti
di Cristo che dispèra e piange Làzzaro,  
che varca le onde,
di Cristo che risorge;
e la sua fede, allora, ritornò.
E venne il fàr del vespro.

Hàrold tornò al villaggio. Ma era tardi!
Wùlf, il malvagio, fece trucidàr
il ligio mònaco,
e con costui le guardie a lui affidate:
era il meriggio, e il frate stava al pozzo.
D’un tratto i suoi guerrieri fûr colpiti
a tradimento da quei di Wùlf, l’empio,
e càddero trafitti, e spenti e morti,
a terra, tra il lòr sangue.
E Wùlf, il pèrfido, urlò sue bestemmie
al vecchio, il prese per la falba tònaca,
e lo trascinò via;
e convocato il pòpolo impaurito,
il suo pugnale estrasse e lo sgozzò,
e dopo avèrlo sgozzato, ei la testa
gli troncò furibondo,
calci ei scagliando al corpo inerme e muto.
Allora Wùlf, il malvagio gridava,
e a indicare ei si mise ogni cristiano;
e i suoi compari d’armi
si scagliàvano irosi come lupi
contro quei mìseri,
lòr legando le mani e le caviglie.
E ora che Hàrold tornava,
Wùlf singhiozzava, facèndosi beffe
di Cristo, empio proclama:
«Chi, dunque, si batterà per costoro,
per salvàrli da me?....
Dèbole è così il Cristo
che mèn di Wòtan non ha Eròi sì prodi?....
Se entro codesta Notte qui nessuno
verrà a bàttersi meco,
costoro moriranno per mia mano,
e la figlia del nostro cacciatore
allora sarà mia».
E Wùlf, il crudo, sghignazzava. Oh infame!
chè ben progettò àttimo sì propizio
per istigare il cacciatòr rivale,
avendo ei preparato a lui un’insidia
donde morto sarebbe uscito, e senza
onore e nome.
E Hàrold, che prontamente ‘l sentì urlare,
visti i cristiani incatenati e mesti,
e la sua prole, e la moglie impaurita,
ah! egli l’astuto!
brandì il pugnale, ma nascose un dardo,
e poi si fece avanti.

«Io sòn l’Eròe che Cristo qui desìdera!»
ei proclamò appagando il desiderio
di Wùlf, il crudo.
E questi fece un ghigno, e rise, e urlava.
I suoi guerrieri su Hàrold si mòssero,
e il pugnàl gli strappàrono.
Poscia, Wùlf disse: «Qui nàrrano tutti  
che sei il più grande arciere di Norvegia.
Ben lo vedremo!
Se colpirai una noce
che in sul capo del figlio tuo sarà,
lo giuro! mi prostrerò a’ piedi tuoi
e di quel Cristo farò mia la fede».
Hàrold tremò;
ancòr più ne tremava quando vide
due ceffi orrendi trascinàr il figlio,
Èrik, impallidito, a lui dinnanzi,
e uno di loro mèttergli una noce
sul biondo crine,
e l’altro dàrgli un dardo,
e le spade affilate in su’ i cristiani.
Hàrold tremò;
e quasi in pianto
il dardo prese, e prese l’arco suo…
freddo osservò la mira, e poscia tese
l’infame corda del colpo più bruto.
Schioccò la freccia che colpì la noce
tra lo stupòr di tutti,
e il figlio stava immòbile e sudato,
a occhi chiusi, piangendo.
Wùlf, il crudo, per mantenèr il giuro
verso Hàrold si mosse;
e pria che a inganno avesse ei estratto un ferro,
il cacciatòr il dardo ascoso prese,
e con possanza glielo scagliò in cuore,
e lo fece morìr.
Così il tiranno morto or cadde a terra,
e presi da timore i suoi guerrieri
fuggìrono lontano, altrove… e non
si vìdero più.

E Hàrold divenne il sire
di questa savia terra;
e a lungo ei visse, nel nome di Cristo
e del re di Norvegia.
Il Male era sconfitto;
Mìdgard era lìbera.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Dipinto che ritrae Brunnhìlde, la Regina delle Valchirie, Romanticismo scandinavo, Seconda Metà del XIX Secolo



In Dì di Venerdì XVIII del Mese di Novembre dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI.