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venerdì 11 novembre 2022

Sonetto - Angioli e Demòni

Fanciulla, il vecchio Autunno piange foglie,

lagrime d’oro dai rami tremanti,

e piangono le vendemmie frizzanti;

Novembre geme il Sole che si scioglie.

 

Vedo te, vedo le perenni doglie

della campagna e i campi spasimanti,

e i passeri e gli stormi remiganti

alle terre africane che li accoglie.

 

Fanciulla, chiedi che sia, dunque, il Male,

questo Autunno vorace, chi mai sia io

che parlo delle foglie di nessuno.

 

Questa domanda è una nebbia autunnale,

ma la risposta è che siamo ombre e oblio,

sempre Angioli e demòni per qualcuno.

Dipinto di Stanisław Witkiewicz (1851-1915), Nebbia di Primavera (Mgla wiosenna), Romanticismo, Tardo-Romanticismo, Accademismo, Realismo paesaggistico polacco, 1897. Olio su Tela, Dimensioni 60,5x76,0. Collezione presso il Museo Nazionale di Cracovia, Città di Cracovia (Polonia).
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Venerdì XI Novembre AD MMXXII.

giovedì 2 marzo 2017

Marzo

Ïèri era l’inverno, ‘ve io vidi e ghiaccio e neve.
La nebbia prepotente copriva di ombre i miei occhi,
e sepolcral silenzio mi si schiudeva. Lieve

mi era il giorno, sì corto, debolmente. Rintocchi
di funebri campane portava la bufera,
nell’eco sua, tra i gemiti dei suoi più nivei fiocchi.

Ma oggi, or che mi destai, ho scorto nuvole in schiera,
che mi sembrano liete, delicate. E sottile
mi è l’àër loro, nunzio che arriva Primavera.

Così da marzo ammiro le prime erbe di aprile,
sbocciar le margherite, con le quiete vïòle,
e ravvivarsi sùbito le stalle, i buoi, e il fienile.

Allor le speni cuciono con le leggere spole
Sogni e sospiri nuovi. Vorrei un raggio di Sole.



Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Robert Gallon, Un Paesaggio inglese, Tardo Romanticismo britannico, Seconda Metà del Secolo XIX, Età Vittoriana



In Dì di Giovedì II del Mese di Marzo dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Fede e di Grazia AD MMXVII.

venerdì 17 febbraio 2017

La mia Terra, ovvero Immagini di Borgolavezzaro tra Nostalgia e Ricordo

Immagini borgolavezzaresi - La Cascina della Chiusa

Quand’ero un pargolo - oh gentil membranza -
lieto n’andai vêr l’onde dell’Agogna,
e de’i pastor mi suonò una romanza,
dolce zampogna,

e allor che fui privo d’inquiete cure,
e illuso là ero da un sogno di Vita,
miravo i campi, e i sentieri e l’alture,
l’acqua fiorita,

e nulla seppi di dolor, di Musa,
ed ammiravo la rude cascata,
e la campagna, e ‘l torrente e la chiusa,
ninfea indorata,

e un vecchio mùr scorgea d’una cascina,
e in tra le foglie - e secche e vive - un forno,
e ceppi e legni v’eran, la cucina
in sotto un orno;

e dalle ripe mirai più d’un pesce,
e scorrea il turbine in su’i pescatori,
e in mezzo all’erba crescèvan le vesce,
dolci sapori,

e v’eran querce, e platani, e castagni,
e pioppi e roveri, e frassini e rose,
ed olmi e peschi, e l’impronte de’i ragni
su’ pietre ascose,

e assaporavo l’odor delle trote,
le lente resine, e in fiore l’ortiche,
e vedea bionde dalle rogge immote
le pronte spiche,

e contemplavo il profumo de’i funghi,
e più le chiocciole, e i scuri porcini,
e questi giorni mi sembràvan lunghi,
senza Destini,

e a’ i piè pregavo d’un’imago eletta
che fioca e spenta parea di Maria,
e il casolar fatto di pietra schietta
sembrò abbazia.

Fu il tempo in cui la Vita m’irrideva,
e n’avea indarne speni e bei desiri,
quando l’Amor - ingenuo - m’attraëva,
repressi spiri,

e pensai il mondo sereno - un amico -
e molli guardi donavo alle bionde
dame, e il cammin - Destin ti maledico! -
m’erano l’onde,

e i rossi muri, e il rudere e la fonte
mi dàvan sangue, speme giovinetta,
e scorgea lungi la cima d’un monte,
una saëtta,

e mi fu grato il cinguettar d’un passero -
forse un’allodola - al cielo d’estate,
e segnò il Fato in sul volto d’un cassero
non più che un Vate.

Oh quieta Arbogna! Oh cascina defunta!
Oh chiusa inerme! Oh estinti e miei boleti!
Oh forno antico! Oh roccia alfin consunta!
Quai sogni inquieti!

A voi io ne andavo, e vi contemplavo un fiore,
e molti dì passai di gioventù,
e sognai amici, e Vita e sposa e Amore,
tempo che fu!

Immagini borgolavezzaresi - La Chiesa di Santa Maria

È lieve il calle che oltre i tetti sale
e tra le nebbie si ergono sue cime,
ed è cotanto che pe’ il borgo vale
che dopo appàr un portento sublime.

Ivi - ai suoi margini - un chiostro spettrale,
un casolare giace, e verso l’ime,
mostra le pietre - rovina immortale -
che a’ suoi piè giacciono perdute e infìme.

Lì in tra le nevi si erge un campanile,
e a lui dappresso un tempietto barocco,
e quando il bronzo lamenta, è sottile -

triste nel vento - l’ansimante tocco…
e che sia verno o che sia aria di aprile
del mio villaggio è pieve in niveo fiocco.

E in soffiar di scirocco
codesto è il calle di antica abbazia,
fu dedicato alla Santa Maria.

La bianca pietra e il profumato stelo
dell’arso incenso olezzano pe’ il colle,
e ai simulacri ne palpita il Cielo
ove la statua di un Santo si estolle,

e in tra le brine e nell’orrido gelo,
e in su’ il ghiacciato portone che è folle
di questa Vergine or splende il pio velo
che vola agli Angioli e che è caro e molle.

Qui un flèbil suono si espande söàve
di un organello che canta al Signore,
e offende immobile ancor le arie cave.

E pe’ il cortile, di ghiaccio sta un fiore…
e si alza ai nembi un rosario ed un Ave,
e il borgo intiero è un religioso ardore.

Oh monaster d’Amore,
sei dell’airone il consacrato lito,
e speme santa di un mìser smarrito.

Lì santo sta d’orrore,
al freddo muro e alla parete affisso,
l’ombra possente d’un gran crocifisso.

De’i ceri il pio bagliore
bacia d’Empiro il quieto pavimento,
e vêr l’altare sen sta un paramento.

Ed io vi udrò dolore:
a me dinnanzi la Vergin fanciulla,
Iddio mi scruta, e nel cuor sempre è il Nulla.

Sonetto saffico con Caudo - La Pieve

Vi fu un dì ove io là andavo, a’ i boschi freschi,
e a’ vicìn campi, e in vêr una cascina,
e il mio cuor si bëàva in tra’ bei peschi
di rosea spina.

Lì, e lungi, un marmo con occhi donneschi
mi si splendea, e un’effigie fu divina.
A lei d’intorno stàvan arabeschi
di rosellina.

Allor giungevo a questo crocevia,
dove stanno i sentieri de’ il Gesiolo.
Lì pieve candida ammiravo, e pia

croce in su’ un piolo.
Sì che allor ligio e in tanta cortesia
pregavo gli Angioli inchinato al suolo.

Ma in preda a ignoto duolo
gemevo assorto una lode a Maria:
«Abbi pietà della miseria mia!».

Sonetto saffico con Caudo - Un Fior di Papavero

Sempre andavo a un boschetto a mirar fiori
dove le querce ombreggiàvan gentili.
Là mi pascevo di flebili odori,
e di cortili.

Mi piacquero cotanto i bei colori -
e il verde, e il viola e il giallo, e l’erbe in fili -
i dolci campi, i pioppi, e i pruni mori
e i quieti asili.

Ma che più mi piaceva era quel stelo
che del papavero il petalo irrora,
e rosso e bello, sotto il bianco cielo

lo ammiro ancora:
mi sembrò una ridente dama, un velo,
un occhio rosso che ancor m’innamora.

Ma un rovo, ombra di mora
a lui vicino crescea e il soffocava,
e un venticel lo stame scompigliava.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Daniel Sherrin, Dopo una Tempesta, Tardo-Romanticismo anglosassone, Seconda Metà del XIX Secolo



In Dì di Martedì XIV del Mese di Febbraio dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo e di Grazia AD MMXVII. Revisione di mie Poesie composte nel febbraio dell’Anno MMXIV.

mercoledì 17 agosto 2016

Arbogna!

Fischiàr gavòtte allo specchio di un vento
che fa ritornàr l’eco da i suoi ansi occhi
di invisìbile giorno,
e sibilàr alle frasche dei sàlici
e delle querce, e dei pioppi, e dei plàtani…
urlàr dei sovrumani
sospìr indefiniti come le ombre
delle più attese sere,
e qui sedèr al davanzàl del ponte
presso il più vecchio mulino in mattoni
rossi di smorto fuoco, e quasi spenti
in un tramonto! Arbogna!
Immane possa e tremenda e inumana
nella tua cateratta sotto i miei
piedi, dove zampilli i tuoi cristalli
che ricascando da un pìccolo calle
quasi perpetuamente si moltiplicano,
per poi spègnersi tosto
dissolvèndosi con le altre tue onde
in un così perenne e oscuro ciclo
di Nàscita e di Morte…
una potenza inferma dov’io pùr
mi perdo, e ne’ i suoi vòrtici che scòrrono
per le tue ignude pietre,
come un naufragio eterno nel passàr
di questi flutti irrequieti e furiosi
che sono fiori che nàscono e muojono
nelle tue piogge di torrente estivo!
Arbogna! Sacro
Reno mio, e del mio päèse nei campi,
che i seni culli delle Ondine dei
miei Sogni, e i ventri delle Ninfe d’àëre,
e che sei l’ìnguine söàve e spoglio
di una fanciulla immortale, dannata
a giacèr nuda
nella danza delle acque che rispècchiano
i tuoi infantìli tallòni di Dea,
mentre il discinto peplo scende e crolla, e
per bruciàrsi nel Sole dell’Estate;
e che vai… vai oltre, verso la campagna,
dove sovente io più lìbero e quieto
il cuòr dischiudo ai lenti singhiozzi
della Natura!
Arbogna! Dove io affogo,
e ne’ i tuoi bàratri angosciosi e mesti,
sepolto vivo da’ il scòrrere tuo,
recònditi pensieri di un Pöèta
che vive per il Sogno,
per mèttere alla prova le sue ordìte
sete, i velluti… per vedèr se mai
si avvèrano nei pròssimi suoi giorni,
perché ei ama l’illusione!
Arbogna mia!
Dove nella tua guancia sovrumana
scorgo io più volte riflèttersi il Cielo,
e le nubi sue d’oro,
e l’ìri sua;
e nell’Oltre del ciclo naturale:
nel crepùscolo amaro delle gioje, e
nell’alba della Morte,
e nel riposo della Vita assente,
e negli illusi àttimi dell’Amore,
e nei perduti Sogni della mente,
e oltre ogni via e ogni corso
v’è l’Infinito…. E è Iddio!
E come tu sei bella, oh Arbogna mia!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

William-Adolphe Bouguereu, Venere-Danzatrice, Neo-Classicismo francese, Seconda Metà del Secolo XIX



In Dì di Mercoledì XVII del Mese di Agosto dell’Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia e di Divina Misericordia AD MMXVI

martedì 24 febbraio 2015

Elegie romantiche in Strofe tetrastiche e saffiche in Morte dell'Inverno

Un Tramonto di Febbraio

Nel cielo si tramonta un lume pallido
che d’in sul Sol s’irrora, e in sul crepuscolo
tetra la sera or si scende e in pallore
e in su’ un lunare fiore,

e flebil l’orizzonte e in scialbe tenebre
di sognar qui n’attende, e quai fantasimi
l’ultime brume si splendono meste
bieche come Tempeste,

e quei che nel meriggio si fiorivano
gl’iris e i gelsi e i mughetti e le roveri
nell’oscuro si taccion, e un sospiro
gridano di deliro.

Allor ne’i ruscelletti in ansie l’àlighe
del cèner del tramonto qui si pingono,
e i rosei fiammeggiar de’i vegli monti
di gelo son le fonti.  

L’istante s’avvicina or degli Spiriti,
Furie nel vespro che cingono l’aëre,
e febbrile la Luna ‘l Sole inghiotte.
Sepolcro in cielo: è Notte!

Intuizione di Primavera

Nel vago meriggiar de’i spogli platani,
e in tra’i boschi e i campi or van gli zefiri,
e gelido or si soffia un aër mite
pelle querce assopite,

e al brillar delle nubi e al Sole e al timido
foco del cielo che fresco si spasima,
in un bosco cucite or d’ansie spole
si crescono le viole,

e compagne le son le falbe primule,
e i gigli e l’azalee e ‘l prunalbo cerulo,
e la gemma si cresce al ramo scarno
ond’è ‘l ghiacciar indarno.

Ma ancor nell’orizzonte si ritardano
gl’immigrati stornelli e l’ansie rondini,
e tramontato l’astro, ‘l gelo riede
a reclamar le prede;

e anco se ‘l vento s’aggira più flebile,
e la selva ne sboccia i fior e i frassini,
la mestizia m’invade in sulla sera:
non è ancor Primavera!

Un’Aurora di Pioggia

Poscia la Notte s’albeggiano i nugoli,
e al rubino del cielo or l’acque strillano,
e novo ‘l Sol che sorge in grida piagne
e terge le campagne,

e l’aurora s’annera, e queste lagrime
di serico pallor ne cinge, e un valico
lontan qui si nasconde al guardo umano,
tra le brume un arcano,

e rosea pioggerella al suolo s’agita,
e ancora nella Notte e quasi in grandine
tetra s’infrange e febbrile rischiara
la terra e negra e amara.

Allora contemplando le pozzanghere
mattutino i’ ne veggo che sta a’ splendere
nell’alba che si placa e in ciel sereno
un queto arcobaleno,

e le tinte di ghiaccio mi raggelano,
l’azzurro delle nevi, e ‘l foco gelido,
un ponte che dal vespro al giorno adduce,
e dal verno alla luce.

Le Nevi della Primavera

Rosea si cade la neve, e una nugola
falba ne tempra le posse terribili,
e ‘l ghiaccio ne ricopre ‘l ciclamino,
e gli ontàni e ‘l carpino.

Così all’acque d’un stagno ‘l nembo tremulo
i fiocchi e l’acque piove, e all’alba cerula
or l’anitra selvaggia in suso vola
‘ve ‘l cristallo si cola;

e l’onda si raggela, e intorno i debili
pioppi co’ gemme ne’i ghiacci s’immergono,
e fredda si distende la ninfea,
gelido occhio di Dea,

e ‘l corvo si lamenta e in fame scalpita,
e alla neve ne cerca le sue vittime,
e mentre in ciel la Furia or n’apre i varchi
i pini sono carchi.

Ma quest’è un’ansia neve che in quest’attimi
d’ultimo verno n’appare invincibile,
sibben al fin si sciolga al vano Sole
e nudrendo le viole.

Un Cinguettio

In tra le fronde ignude e ‘l vento gelido,
e alle brume del vespro omai si cantano
cinguettando l’allodole e l’assiuolo,
e ‘l docile usignuolo,

e a queste lamentanze e a questi cantici
scialbe le nevi pe’i boschi si tremano,
e al cielo che s’oscura ‘l cinguettio
precando or s’erge a Iddio;

e ‘l lor canto ne sembra un trobadorico
urlo di danza al convìto d’intrepidi,
‘ve udendo si diverte ‘l rege salce
fuggir mirando l’alce.

Allora a questi sòni stan pur l’anitre
che a’ nembi tempestosi or l’ale stendono,
e alle chiome in germoglio e a un arboscello
si tormenta ‘l fringuello;

e codeste ne son le nenie funebri
al verno che si scende in freddi loculi,
e la neve rimasta insana muore,
e si converte in fiore.

Un Bosco alla Morte di Febbraio

Queta meriggia quest’aura serena,
e ‘l zefiro soäve all’amarena
il fogliame ne bacia e ‘l bel nocciuolo,
e ‘l sorto suolo,

e ‘l Sole si lampeggia a’ sanguinelli,
e a’ germogli e alle foglie e agli arboscelli,
e mite ne palesa ‘l foco e ‘l pregio,
fior di ciliegio,

e i platani e le farnie e i pioppi e gli orni
d’albo fogliame si splendono adorni,
e i frassini e gli ontàni sono in fiore
e in pio splendore;

e ‘l stagno s’addormenta agl’iris primi,
e al soffiare de’i venti e de’i sublimi
monti innevati all’orizzonte etesio
del cielo cesio,

e fioriscono fresche le ninfee,
e le viole e le rose e l’azalee,
e pe’i rovi si splende in fino a sera
la Primavera.

Sensazioni in una Mattina di Febbraio

Spaziändo le nubi e l’ansio cielo
al bosco che si desta i’ sento un gelo
che candido di neve al cor m’assale
fiero e immortale,

e codesto ghiacciar in fin lo spirto
raggelandomi va, e mellifluo un mirto
terribile mi punge e mi commòve,
e ‘l Sol ne piove.

Indi quest’acque di tremulo verno
co’ un guardo i’ ne ghermisco, e in duol eterno
immobile i’ ne trascorro ‘l reo mattino,
crine d’un pino,

donde d’inquieto i’ mi pasco e d’arcano,
e i nugoli i’ contemplo, e in sul lontano
orizzonte i’ mi tremo alla montagna,
gelida lagna.

Mesto un viandante i’ ne sono e m’aggiro
tra ‘l febbrajo e la vera in ansio spiro,
e ‘l cor tra la mestizia i’ n’ho e ‘l febbrile
sogno d’aprile;

e nel nembo di quarzo
ancora i’ non ne scorgo ‘l dolce marzo.

La Morte d’una Stagione

Mesto e tetro e crudele ‘l ciel d’avorio
febbrile si trasuda, e all’aspersorio
della pioggia gentil la neve cola
l’alta frangòla.

Così pelle foreste un nunzio corre
che vuol che questo verno or sta per sciorre,
e un germoglio si sòna al funerale
del maëstrale,

e un pallido orizzonte si tramonta,
e ‘l roseo delle speni omai n’affronta,
e ‘l ghiaccio si discende in su’ una fossa,
gelido d’ossa,

e ‘l ruscello ne spezza ‘l vil sudario
delle nevi ghiacciate, e ‘l reliquario
falbo si giace d’un calle che scioglie
le bianche doglie.

Ma l’orso delle nubi ancor s’aggira,
e quest’ultimo gelo or ne sospira,
e lentamente muore la stagione,
fredda canzone.

L’ultime Immagini dell’Inverno

Grigie le foglie del noce spogliato
ne grondano le piogge, e ‘l ciel irato
cupo s’infuria in estrema bufera
d’eterna sera,

e in cenere ne stanno i rami ignudi
de’i platani selvaggi e orrendi e crudi,
candidi pioppi malati d’argento
del negro vento,

e un sambuco si giace in reo grigiore
e le gemme ne mostra or nere e in fiore,
e un nugolo minaccia ancor le nevi,
e i ghiacci grevi.

Allora si tormenta un salce e in pianto
svelto ne gela le lagrime e ‘l manto,
e i campi si ridestano innevati,
fanghi argentati;

e ‘l lumicìn del Sole è un sepolcrale
inno di Morte alla Furia che assale -
e pell’ultima volta - ‘l ciel del verno
che muore eterno.

Un Meriggio

Ascoltando le lagne or dell’allodole
e ammirando le nubi che si tacciono
al finestrel mi giacio, e volgo intorno
pel verno in ghiacci adorno,

e i valichi lontan ammiro e i pini,
e l’ombre de’i torrenti e freschi e alpini,
e se ‘l cor si raggela or l’alma n’ode
le speni e gode;

e a’ trascorse stagioni or pensa e agli attimi
d’una vera che annunzia un’orba rondine,
e l’incognito cielo in requie scorge,
‘ve del Sole or s’accorge.

Frattanto mi riposo, e in Poësia
animarsi ne veggo un’ansia via,
e di tè n’assaporo un nappo mite
d’indiana vite,

e debile n’interrogo or le nugole
dell’avvenir bramato e in sogni e in incubi;
e brillar ne contemplo un primo fiore,
gaudio sereno al core.

Appendice. Un’Elegia-ballata, ovvero Un Canto di Rondine

Una rondine a un orno al fin si posa,
e pallida ne canta al primo Sole,
e ‘l guardo ne indirizza all’ansie viole,
e così si lamenta l’amorosa:

«Oh Primavera prisca in queti nugoli,
spaziändo quest’aure e ‘l vento formido,
or d’amarti, oh gentil, ne son inetta,
e tu la mia diletta.

Un giorno ben t’amai, e a un sogno i’ n’impreco,
e fuggendo a’ deserti i’ non fui teco;
e tu ne divertivi a’ bei convìti,
sogni assopiti.

Tra le dune romìte un dì dell’eremo
a te ne lamentavo, e in fieri palpiti
inni cantavo che tu non ascolti,
donna da’i tanti volti,

e ora che veggo le chiome dorate
del volto che ti splende al Sol d’un Vate
mestamente comprendo: non fu Amore,
bieco dolore;

e questo rimembrar cagion di spasimi,
e ‘l sogno che trascorse e in inquietudine,
col mio canto ne muore, e vola via,
mesta elegìa».

Una rondine a un orno al fin si posa,
e pallida ne canta al primo Sole,
e ‘l guardo ne indirizza all’ansie viole,
e così ne cantava l’amorosa.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Borgolavezzaro Martedì XXIV Febbraio AD MMXV