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sabato 11 luglio 2020

Un'Ode al Sole d'Estate

O Sol molesto, tu
i tuoi velen di rai
volgi vicino, e i miei
occhi abbagli di cera
dorata che da fiamme
dell’Estate propaghi
finché vien sera.
Allor che è così, sai
che della Luna Dei
pallidi le mai calme
Notti tanto m’alluminano
e quei che son mai paghi
Sogni, onde il tuo cammino
all’orizzonte muore,
nell’Ade scivolando
e nel regno delle Ombre
neglette. Ma tu, o Sole,
pur molesto, sai che io
di te nel sonno blando
la mancanza e le tombe
intendo, sicché so
che più d’odiarti t’amo,
con l’alba e il tuo richiamo.
Oh Sole, almen splendessi
sempre sulla mia Estate!
Peder Mørk Mønsted (1854-1941), Un Tramonto con Paesaggio, Tardo-Romanticismo paesaggistico danese, Inizio del Secolo XX
Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, Sabato XI Luglio AD MMXX.

sabato 17 novembre 2018

Il Mosto del Barbaro

Nebbie! sorgete, oh spettri di guerrieri!
Bocche di Villi da' bardi baciate,
cristalli di vendemmiata pioviggine!

Dianzi a' il buon mosto, intanto, da voi io lungi
giacio. E ripenso!.... Oh rosei vapor
del Crepuscolo! sìmili alle guance

dell'Ebe che sorseggio! Oh amica sera
che i ricordi del giorno mi divori
lievemente scaldandomi alla Luna!

Oh arpe che inneggiano al sepolto corpo
di Freia, l'estiva, fertile a' le fiamme
infinite del Sole! Ahi, canto funebre

che Skàdi evoca alla Vànir dormiente,
mentre il nevischio annunzia il nuovo inverno!

Ho freddo, oh nebbie! E la mia landa immensa
sotto i miei occhi inghiottite. E penso. E piango.
Oh foglioline indispettite a' vischi

per le falci de' Druidi dell'Autunno!
Oh corpicini secchi che insepolti,
poiché inumani, le Valchirie évitano

nel lor guerresco volo! Oh tintinnar
di rigide ocra reliquie di querce...
oh fulvi rimasugli de' bei pioppi!

Oh cimbe di fogliami remiganti
sulle più sacre ripe dell'Arbogna
've il mio calice accoglie il vin selvaggio

degli acerbi vitigni! Oh Erda... Erda, Dea
di questa addormentata, empia Natura! 

Hai tessute le spoglie delle Figlie
delle onde de' torrenti! il dolce ventre
a Freia hai donato! Hai splasmata

la cetra urlante di Lorelei che urla
fino a farsi sentir tra queste brume,
bianche regine del mio freddo Nord!

E ora io godo del tuo vino mietuto
dal correre del tempo che lo invecchia -
ei immortal, io dannato a estremi spiri!

Brindo a te, allora, oh Natura pallente,
cui sopravvivo al momentaneo sonno
per avere nel cuor i tuoi gai ardori!

Brindo a te, e immergo il nappo a' la mia bocca,
e avrò qui forse un po' di caldo, allora!

E penso! E bevo!.... Froh! non hai scordato
il mio desiro di coglier la Gioia
baciandole ne' Sogni ansanti labbra?....

Ma odo che sempre più la piova cade,
e il meriggio mi pàr sempre più breve,
donde qui a me ei rapisce ore di Vita.

Così svelto sovvien, infatti, il vespro,
e presto si svanisce il sacro fuoco
del mosto di novembre in mia ogni vena.

E mi rimane l'eterno cordoglio
che de' bardi ferisce il cuor che duole:
il Sogno! Ombra che appena all'alba muor.

E so che in questi brividi di sera
il nido intesse questo oscuro Fato!

Gustavo Simoni, L'Istoria del Menestrello, Tardo-Romanticismo italiano, Fine del XIX Secolo


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Sabato XVII del Mese di Novembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

martedì 15 marzo 2016

La Cantica delle Valchirie

Eroi perduti che sòrgono a frotte
addìtano le nubi tempestate.
Oh voi Valchirie… oh voi Sorelle, udite!
Sàlgono i lor lamenti e si dispèrdono,
e il loro sangue, e loro bave, e il Fato
lentamente ora vanno nell’oblìo,
di Dönner disperando essi, singulti
perenni di Destino e di tramonto,
d’in sul trïònfo dell’invitte liti
che morìr li ha veduti presso il brando
insanguinato e folle, sovrumana
ira che miete dovunque la Morte,
ineffàbili crani primigeni.
Così è giunta per lor l’eterna Notte,
Anime inquiete nel Nulla scagliate,
e vanno… e vanno, perplesse e smarrite
dove gli omaggi al re Wòtan si rèndono,
tra le nebbie di un vèspero adirato.
E noi Valchirie, ombre di questo Dio,
i lor temprati ardori e i loro inulti
sospiri estremi e l’infinito affronto
flebilmente accogliamo, Anime miti;
e questo sonno rendiàm loro blando,
noi, posse occulte di Erda la Dea arcana,
bionde compagne delle Norne, Sorte
che aleggia co’ gli usberghi in sopra i seni.
Figlie del Caos, sorelle di Froh, brume
di Ygdrasìl, quercia immonda del Destino,
a prèndere corriamo questi spettri,
noi cavalcando i temporali oscuri,
oltre le vette dei monti del Reno,
lungo l’ombra dell’arpa degli Scaldi,
oltre i càntici bei di Lorelei,
Ninfa che geme sui mesti relitti,
ululando noi altère come i lupi
nell’inverno perenne della fame,
palafreno funesto e oscuro e tetro.
Eroi, oh Eroi, non temete! Sarà un lume
a risplèndere al vostro teschio, inchino
tempestoso e funereo dianzi ai scettri
degli impetuosi Dei, e dei più puri
dolci anelli di Freya, gemme al seno
dal peplo ricoperto - oh i veli baldi! -
intinti di amaranto, gioia dei lai
nella pugna versati. Oh voi sconfitti!
Qui con noi regnerete sui dirupi
che al crepùscolo son fulvi di rame
di intatto sangue, e in su’ i cieli di vetro.
Ma la tragedia non tarda a noi, ombrose
Valchirie del più freddo Nord dei fiordi
selvaggi e nivei, donde noi soffriamo
quando le eròïche e ansimate prede
un giorno trapassate ci sospìrano
melliflui sentimenti d’un arcano
or mai assopito, e femminile e vago,
un senso mite di irrequieto Amore,
che mai sarà corrisposto. E ei è il volère
della Natura primigenia e cupa
che con il ferro e co’ il rame ci ha ordito.
Saremo sempre posse burrascose,
di elmi coperti i volti che son sordi
nella menzogna a quello che sentiamo,
e col guerresco corpo, e il ferreo piede,
co’ gli occhi attòniti e fermi che stìllano
tàcito pianto, fatàl, sovrumano,
làgrime inquiete, làgrime di un lago
che spazia e inonda funestando il cuore, e
‘ve sempiterno vi è il nostro dolère.
E porteremo con noi questa cura,
la porteremo lungo l’Infinito.
Fortunata Brunnìlde in suo riposo,
almèn nel sonno troverà il suo sposo.

Wòtan un dì si girò, e la baciò,
tra le fiamme di Lòg(h)e, il Dio più saggio.
Wòtan un dì si volse, e la baciò,
la cullava nel sonno e nel miraggio;
e danzava d’intorno il fuoco eterno,
ridèvano le scialbe sue lenzuola,
in un letto di bara eterna e viva,
in un letto di Morte e di sopore.
Wòtan un dì si girò, e la baciò,
dàndole - chè era figlia - ùltimo addio.
Wòtan un dì si volse, e la baciò,
perché Ei voleva èssere sempre un Dio.
Così riposa la nostra Regina,
dalle fiammelle circondata, e stesa
d’in su’ un monte segreto che soltanto
Mìme conosce e il suo prode figliastro,
Mìme silenzia a un figlio di Valchiria.
Wòtan un dì si girò, e la baciò,
sulla fronte tremante e che non regge.
Wòtan un dì si volse, e la baciò,
ella osò andare contro la sua Legge.
E ora lì addormentata attende invano
che la lancia dei sacri Patti muoia,
e che le fiamme retrocèdan svelte
al corno di un Eroe anònimo e oscuro,
al corno della Vita e della Sorte.
Wòtan un dì si girò, e la baciò,
dicendo che un baciàr la sveglierà.
Wòtan un dì si volse, e la baciò,
e dov’ella ne sia nessùn lo sa.
Erda e le Norne vòglion che costei
sia l’ùnica Valchiria che ami, e tanto…
costei che aspetta il risveglio di un labbro,
il risveglio di un bacio.   



Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Una Valchiria, Dipinto di Peter Nicolai Arbo



In Dì di Martedì XV Marzo Anno del Signore, di Grazia e di Divina Misericordia, AD MMXVI 

venerdì 20 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

VI. Preludio poetico. Le Fanciulle del Reno e Alberico

E mentre Freya agli Dei sale e ai fratelli,
rimàngon sole le Ninfe del Reno,
e Lorelei si lagna e si tormenta,
e alla Dea canta un carme di dolore.
Così giuocando trascòrron quest’ore,
e vêr il mezzogiorno un nembo in lenta
dolcezza piove, e il gemere suo è ameno,
e scorre ei su quei sguardi e freschi e belli, e…
e poscia questa pioggia i venticelli
solleticano ansando ogni bel seno.
Lorelei si ritira nella grotta,
dove sovente piange il suo Destino,
e molte Ninfe la seguono meste.
A scherzàr tra quest’acque rèstan leste,
col crine all’onde asperso e vôlto e chino, e
coi nudi seni e la scialba guanciotta,
e dentro il petto un cuor, un cuor che scotta,
e che è Figlio del Reno, egli, divino,
sol le tre primigenie Ninfe e bionde.
Ecco: Flosshilde, Woglinde e Wellgunde.
E son Sirene, esse, tra le più belle,
eterne e bianche, e guance seducenti,
lievemente arrossate dal lor senso,
ardendo incensi di rose e di viole,
e sorrisi leggiadri, e solitarie
ombre di Notte, allegre eternamente.
L’una fa un scherzo all’altra, e poi si pente,
e la terza danzando e l’acque e l’arie
in vortici dischiude, e ride al Sole,
oltre il nugolo oscùr che mugge immenso;
e son fanciulle divine e ridenti,
nate da un solo grembo, e son gemelle.
Ora scherzano e vanno sugli scogli,
e vanno… e vanno cantando una saga,
e la pioggia finisce, ed è il sereno.
All’orizzonte sta l’arcobaleno,
e la Natura intorno è dolce e paga,
e in fior si càngian i freschi germogli.
Ma a frànger quiete vièn ora un nemico,
da Nibelheim il Re infame, Alberico.

Egli è lo Gnomo delle nebbie oscure,
pìccolo e rozzo, di pelli coperto,
vestito d’orsi, e di lupi sgozzati,
la folta barba fin sul suo ginocchio,
e i capei negri di Morte e di sprezzo;
e qui sul Reno, lo muove una possa,
il Fato di Erda, che muta l’ha fatto
suo nel silenzio d’una Notte infame,
sussurràndogli arcani di Potere,
e promettendo una sposa al suo istinto.
Allòr costui contempla quelle pure
Ninfe che scorge, e tiene in capo un serto,
d’oro e di ossami biechi e trapuntati;
e corrivo… e corrivo sen va il suo occhio
su queste forme di donne e di vezzo,
ed ei per poco qui già non s’addossa,
furioso e incline al senso, e scaltro e matto.
E gli sta intorno d’insetti uno sciame,
e tanto ei odora di vin che va a bere,
e dalle sue Sirene - pensa - è vinto.
E così appena e appena qui nascosto,
Alberico contempla queste carni
di fanciullette natanti, e i loro scherzi,
i canti ingenuamente detti, e i trilli
delle onde quiete e delle lor conchiglie,
solleticate tutte dai bei piedi
danzanti delle Ninfe; e vede ei e ammira
le bianche mani gettàr l’acque in fronte,
e d’acque i lor capelli rigonfiarsi,
e saltellàr i ventri, e i seni tondi.
Egli le vede, e le vuole a ogni costo,
estasiäto dai lor molli carmi,
volti ridenti, e belli e sempre eterni,
i capei saltellanti come grilli.
Le brama tutte… tutte ghermìr Figlie
del sacro Reno. Oh Erda, oh Erda, oh Tu, non vedi?
E il Nibelungo or folle più sospira,
e quietamente va di ninfee a un ponte,
e il suo cuor ne ribolle e sta a infiammarsi,
s’incammina furtivo a’ qui crìn biondi.
Erda, oh meschina, è dunque tuo il meschino
che compirà l’infame e orbo Destino?

«Weia, Waga, Waga!» càntan le fanciulle:
«Oh Reno, oh Reno, custodisci il tuo oro!
Abbi tu a cuore, oh tu, le nostre perle,
e il nostro argento, degli Dei custode!
E vieni qui a cullare i scherzi nostri,
e le canzoni che cantiamo insieme,
sorelle in festa della tua Natura!
Weia, Waga, Waga! Riddiamo felici!»
càntan le Ninfe all’ombra di betulle:
«Oh come il flutto tuo s’è fatto moro,
acque raggianti tanto dolci a berle;
e il nostro scoglio lentamente erode
le sue pietre e i suoi sassi, e i freddi rostri!
Sorelle in festa: ora cantiamo insieme!
Oh acqua, oh acqua, fresca, eternamente pura!».
Ma qui procede con l’ombra sua oscura
il Nibelungo dal Regno di brume,
che ovunque porta la Notte sua orrenda,
nebbioso spettro del Nord dei Folletti,
ammaliäto da quel canto udito
che è misterioso e che è voce di dama; e
ei s’avvicina… s’avvicina e azzarda
lo sguardo ancora sulle femminine
forme, non visto - lo scaltro! - e sorride,
perverso come una Furia indomata,
e spia le schiene sedute allo scoglio,
pelle dorata d’estatico lume.
E alfine il bruto si fa avanti udendo
la paüra sconvolta delle Ninfe,
e i loro acerbi sospìr e i lor detti,
e sempre ei più le mira, ed è smarrito,
e nei lor sguardi lievemente sfama
la sua brama brutale; e poscia guarda
tra l’acque sacre le sue fanciulline,
riparate nell’onde, la spogliata
pelle lì proteggendo… lì, sul soglio
del santo fiume, fino al collo immerse,
e arrossite per tanta lor vergogna,
e maledìcon quest’infame Gnomo
il qual sogghigna e poi se ne rallegra,
inchinàndosi ai flutti, vêr di loro.
Così gli vèdon il sembiante moro,
e questa lunga barba ansiosa e negra,
e lo sprèzzano queste: «Non è un uomo!»,
e gli lànciano un’onda. Ahi quale rogna!
E qui dal Reno sono sempre asperse.
Ma egli, Alberico, porge le sue terse
mani, e non sa ei che è come su una gogna.
«Fanciulle belle» egli soävemente dice:
«Ah perché nascondete l’alme forme:
i seni vostri, e i ventri, e l’anche, e i fianchi?».
E le Sirene vòlgono i lor bianchi
volti, si guàrdan, e invòcan le Norne,
e già un silenzio ora le maledice.
«Fanciulle belle!» sclama l’infelice
che sulla terra lascia piccole orme.
Ma più fatale d’una cupa runa
chi gli risponde, ahimè, se non nessuna?

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Venerdì XX Novembre AD MMXV

sabato 14 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

V. Senso, Bellezza e Desiderio del Reno

Erda ha giurato: vendetta sia! E fugge,
Erda, alle nebbie svanendo nella Notte. E
qui Ygdrasìl trema oscuro e inferocito,
e le alte fronde del Fato son ombre,
lì, tra l’argento della Luna impura, oh
quercia, sotto cui si radunano i lupi, i
famelici Orchi della sera invitta, e
manti di Morte affamati di ragne.
E qui segretamente e lento rugge,
ei, il Regno del Destino, e alle sue grotte
ogni Norna lamenta. E l’infinito
aëre delle Furie, ei, orrido e informe
va. E fuori il cielo sempre più si oscura, e
domina i monti, e i vàlichi, e i dirupi.
Ogni Elemento danza una sua ridda,
e l’orizzonte fa eco alle sue lagne.
Erda, Erda è Spettro che vaga ululando,
e alle sue cure paziente provvede,
Erda, la Dea invidiosa. Oh la Ribelle!
Ed ella avvolta in Tutto va pensando,
e qui terribilmente più non cede, e
delle Valchirie vuol forse le selle.
Così lenta vien l’alba, e il nuovo giorno!
Tenebre fitte s’aggìran d’intorno.

Ora, mentre la Notte s’abbandona
a un mattutìn riposo, e dorme, e mentre
il primo Sole dà un bacio alla Luna,
e intanto che Ygdrasìl esausto trema
con le sue foglie in preda alla rugiada,
e quando tra le sue onde splende l’oro
del sacro fiume, specchio della stella,
tra gli Gnomi custodi, ebbri di vino,
Freya a uno scoglio si siede; e all’acque dona
un suo sorriso, un sospìr del ventre
che il seno muove nell’aurora bruna.
Ed è un sèn che non sa l’empio anatèma
che Erda gli ha ordito, Erda, la Dea sprezzata;
e che bello si erige, scialbo, e moro
dove un dì sarà il latte. Oh Freya, la bella!
Ed ella è Vita, Infinito divino,
e specchiàndosi a un’onda, ora innocente
si pettina i capei con la conchiglia
che in mano tiene: lì i riccioli biondi,
e qui le trecce presso le orecchie
che come baci scendono alla gola
solleticandole il corpo che ride,
e qua, lisci alla nuca, e ora là, dietro
il collo a ricoprirsi un po’ di schiena, e…
e una ciocca alle spalle. Oro… oro… e Sole!
E le pupille azzurre sulle viole
presso una riva si posano, amena
Dea di Bellezza e Gioventù. E sul vetro
delle sacre acque, ella, il suo sguardo incide,
un volto che nel vìver si consòla;
e lungi scorge gli scogli e le vecchie
foreste antiche, e in ciel i vagabondi
rondoni inquieti. E ha bionde ciglia,
nuda e selvaggia, qui, innocentemente;
e annoda ai fianchi un drappo falbo e intenso,
a ricoprirsi il femminino senso.

Oh mai veduta beltà, e mai Dea attesa!
E mai cantata giovinezza e donna!
Ella sta muta, e accarezzando il crine,
e poi solleticando il fianco, trae
le gambe sullo scoglio, e i piedi appoggia
dolci sul Reno, sensualità casta,
e con lor dita arpeggia l’acque fresche,
e canta le canzoni delle Ninfe,
un giorno prima apprese; e sotto i rai
del Sole vive, e le Ondine ridesta.
Tiene i capelli, e non lascia la presa,
e ride verso la pìccol sua gonna,
e ammira le lontane e bianche cime
dove l’attèndon gli Dei, e protrae
a queste il canto suo, rorida pioggia
d’insolite ansie; e ignora la nefasta
Sorte, e le Norne, possanze donnesche.
Ed ella sola tiene alle sue grinfie
il corpo suo, e ora scherza. Lorelei[1]
canta con lei, e l’invita a fare festa.
E Freya la segue, e qui cantano insieme,
e l’orizzonte si apre alle lor voci e…
e Freya cantando soffia aliti caldi
alle sue braccia e agli zefiri primi,
desiderosa di Vita e di gaudi; e
desiderosa di Vita e di gaudi
ell’è dassenno, coi sguardi sublimi,
col sensuale torace, e i sembianti alti,
labbra assassine dei venti più atroci,
e ricca di Bellezza, e poi di speme. Oh
desiderosa di Vita e di gaudi!
Ora le Ondine vanno alla sua cetra,
e le pòrgono i seni, e i ventri e gli occhi,
e come Lorelei, càntan con lei.
E questi suoni sentono gli Dei,
e codesti soävi e bei rintocchi,
e allor un Messaggèr màndan dall’etra.
E allora un Elfo scende, e va sul Reno,
e fulminato vièn da questo seno.

Ei si presenta alla Dea e dice poscia:
«Vieni con me: gli Dei ti vòglion presto,
e a te son io mandato. Sali ai monti!
Scherzerai dopo con queste Sirene;
ora sèguimi, andiamo. Ecco una veste!»;
e detto questo ei le dà un peplo e un drappo,
e poi le mostra le valli divine:
«Lorelei, oh Lorelei, canta per lei
che tra di noi festosamente inciela!».
E Freya lo ascolta, e il collo, il sen, la coscia
febbrilmente ricopre. Oh peplo mesto!
E con quest’Elfo sale agli orizzonti,
e invitte ha nel suo cuor le giòvin lene,
e guarda e ammira le tetre foreste.
E intanto l’Elfo gode e beve un nappo,
Messaggero fatale, al ber inclìne.
E così Freya a conòscer va gli Dei.
Ahi qual sciagure non sa, ahimè, costei!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro



Sabato XIV Novembre AD MMXV



[1]  Lorelei, si pronuncia Lorelài, è la mitica Sirena del Reno. Regina delle Ondine, con il suo canto affascinava chiunque la ascoltasse.

martedì 10 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

IV. Invidia e Ira. Bellezza e Odio. Il Monologo di Erda

Ygdrasìl ora è cupo, e solitario,
e ogni Norna or è andata altrove, all’antro
della sacra betulla; e lì il sudario
del Destino si tesse. Ma Erda accanto
alle più tetre frasche e immota e muta
al vìl tronco si regge, e grida. Tanto
or è ferita dai decreti; e cruda
già si muove a vendetta, empia… iraconda,
e la Tempesta che si placa scruta.
Chiama una nube; e vi specchia: la bionda
chioma, e il giovine volto, e il corpo ameno,
primigenia bellezza. E affonda… e affonda
nel mar dell’ira e dell’invidia; e il seno
per specchiarlo si spoglia, e il ventre, Dio
delle Stirpi divine, e Genio. Osceno
è l’ombreggiàr del suo corpo, che è fio
d’uno scorno inatteso; e quasi informe
è questa sua bellezza. E grida: «Oh mio
cuore di Donna suprema, ingannato
tu sei; e tu… tu, svanisci, oh nube folle,
mentitrice assoluta, oh specchio bruto!
Tu che mi mostri le bellezze mie,
quando v’è altra Bellezza che è più degna,
muori! Sparisci! Oh ladro di mia quiete!».
E piena d’ira, il peplo si è strappato,
e come un lupo, ella ulula su un colle,
e dal suo labbro, quasi scende un sputo.
Osserva… e osserva le irrequiete vie
delle civette, e la Notte che regna;
e di vendetta e di Morte Erda ha sete.
È un Mostro, Furia d’un Occhio ribelle,
Spettro del Fato; è una donna convulsa
dal sogno infranto di regnàr sul Mondo;
e chiama i nembi, e vi si specchia, e ingiuria,
e li allontana, e li richiama, e guarda,
perfettamente legge in ogni nube,
e sempre trema; e non scorge che Freya,
cimba vivente sui flutti del Reno,
lì, tra le Ninfe, sciagurate al cenno
della Sorte nascosta ai loro corpi:
non vede che la bianca e dolce pelle
della Dea per la qual ode ripulsa,
e il volto bello, e il suo labbro giocondo,
le guance belle… e s’infuria… e s’infuria;
e la boccuccia giovine e maliarda,
e il ventre puro, e i fianchi, e il casto pube, e
le gambe belle. Ed Erda quasi abbaia!
E scorge la sua schiena, e il fresco seno…
e va… e va… e va a infuriarsi. È fuor di senno!
E i suoi sogni supremi sono morti.
Ma quel che ‘l più spaventa e ‘l fa dolère
è il sapèr dell’arcano e oscùr Potere.

«Io son la Dea, la Prima delle Schiatte,
e nessun Dio più di me è forte, e esiste.
E io ho il nome: Madre; e reggo e Norne e Fato,
e Tutto a me si piega e si costerna;
ed esse le mie Figlie dìcon questo:
che Freya è Bellezza superiore, e un Nume
di me più eccelso nel suo cuor s’incarna,
un Potere a me ignoto. Egli! Immortale
quando nel Regno mio anche gli Dei han fine!
Oh del Destino parole empie e matte! E…
e io già lo sento: è un Dio che mi sussiste, e
che nel mio cuore ora non è che odiato.
Egli mi fece…. Oh arroganza superna!
No, Dio… Dio mio! No!.... Son lo Spettro mesto
che il Tutto ha ordito, e che irradia di Lume
la tua Natura, sì finita e scarna,
e che rivela al Vivente il fatale
decreto del Destino. E Tu, Sublime
chimera, oh Tu, spauracchio d’uno Gnomo
credulone e gaudente, ascolta l’ira
d’una tua Donna, ingannata e reiëtta,
cui hai ben nascosto e il Vero, e il Male e il Bene,
Tu, sapendo che creo ogni cosa! Ascolta!
Vada il tuo Amore nel Caos primordiale,
la tua Bellezza crolli, e Freya svanisca;
e la mia Possa ti premerà! Morte
giuro e Vendetta! E contro Te già tuono,
e contro i Vivi il mio Spettro si aggira,
e contro la tua Stirpe maledetta,
e pel mio trionfo bramo laide cene.
Vedi, oh Superno! Già nell’ira avvolta
strùggere voglio il tuo Mondo gioviale;
e Freya, la bella… e Freya sarà una lisca
che affogherà nel Reno. È la sua Sorte!».
Erda! Erda! Oh Erda! Ah perché così tu ingiuri?
Anche i tuoi Fati saranno più oscuri. E
Erda ingiuriando svanisce nel Nulla.
Oh Freya! Oh Misera! Oh Dea! Oh bella Fanciulla!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Martedì X Novembre AD MMXV 

lunedì 9 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

III. Il Destino di Freya

Allor le Norne tessono le ragne,
e nella Notte son streghe di Luna.
Erda, la Madre, le scruta e le osserva,
divinamente balda e pièn d’orgoglio,
e inquieta attende il fatàl lor decreto,
come uno Spettro che nel vento ondeggia; e
esse, le figlie, urlando oscure lagne,
danzano intorno, e a una rorida runa
incidono gli arcani. E falba serva
è questa seta d’un ragno e un germoglio, e
esse, le Norne, osservano irrequieto
lo sguardo della Madre. E il ciel rosseggia
di fredde piogge e di saëtte oscure,
e Dònner si lamenta, empio il Martello,
e Ygdrasìl trema, e tremando annera
nelle tènebre fosche, dove ei giace,
indòmite radici della Terra.
E gli Elementi si fanno la guerra,
ed Erda è lieta e di lor si compiace,
ed è perennemente e sempre sera,
e tra le frasche geme un mesto augello.
Ahi! Del Fato quai son le attese cure?
E le caverne non son che terrore
di chi ordire ne vuol la fin d’Amore!

Allor le Norne tessono le ragne,
e all’arcoläio all’opra sono intente,
e Ùror afferra l’estremo di un filo,
Skùld prende l’altro, e Verdàndi lo scruta;
e cammina… e cammina un ragno in salti,
ed Erda è immota, e qui attende il verdetto,
avvolta nei vapori del suo spiro,
lì, dove appare il Destino furioso.
Ygdrasìl ode le tetre campagne
colpite dalle piogge, e allegro sente
i fulmini di Dònner; e giù, l’imo
antro ei protegge, ‘ve una possa muta
quasi s’avanza. E gli Spettri dei Scaldi
degli Elementi giùngon al cospetto
dell’ossee Norne, e danzanti in delirio
tolgono il velo al Fato anche più ombroso.
E a Erda dinnanzi, appàr Freya in visïone,
ombre mistiche e in nubi e prepotenti:
un denso nembo di femminee forme,
immoto e privo fors’anche di Vita,
dove il sèn sembra marmo, e l’occhio argento,
e oro la bionda chioma, e il corpo morto;
e i Scaldi antichi cantano a Costei,
e strìngon l’arpe della Sorte arcana.
E l’ombra ignuda più non va lontana, e
è catturata, e è il Destìn degli Dei.
Erda lo sguardo nella nube ha assorto,
e quasi sente un profondo spavento
per colei che ha crëàto. Oh l’infinita
Madre più antica! E ora giace difforme.
«Ditemi, oh Figlie: i Destini soffrenti!»
ella comanda, ansando una canzone.
E le sue Norne ascoltano i Poëti,
che poi svanìscon, sepolti e irrequieti.

Verdàndi dice: «Di Morte ha le membra,
Freya la più bella, ma invitta ha la possa.
Ora l’ho letto: morirà, ella, un giorno;
ma il suo cuore è immortale, ed è infinito.
Ho visto: e Dei e Giganti e Nibelunghi
per lei far guerre, e maledirla - e tanto -
in nome del Potere d’un Anello,
che è l’Odio primigenio e mai domato
dell’Universo tuo, oh Erda; e lei venduta
ai bruti Divi di Riesenheim, pegno
di Wòtan per la reggia dei suoi pari.
Erda, oh Madre, Erda! Di Morte ha le membra,
ma il suo Potere non avrà la fossa,
e spento il corpo, ei s’aggirerà intorno,
ei, primigenio Iddio, e perenne Mito!
Vincerà il Mondo, quando i Ghibicunghi
corromperanno l’Eroe, oscuro manto;
e volerà, e sarà come un fringuello
libero e lieto, cui nulla può il Fato!
Oh Erda! Freya è Amore; e Tu… Tu l’hai intessuta!
Ma ella si sottrae a quello che è il tuo Regno:
non di Te ella è minore, e non è pari!».
Ed Erda ascolta, e ascoltando ella trema,
ride alle Figlie, ma in cuor è anatèma.
E mentre ora le Norne tàccion meste,
nel cuore di Erda vi son le Tempeste.

E ora Ùror dice: «Freya ha una possa eterna
che non è Anima, né Spirito; e è un Dio,
Madre, un Dio che è il più forte, oh Erda; egli Mente
è e Azione e Amore! E perché ci ingannasti?
Madre? Oh Tu, nascondendoci il suo Serto?
Perché dicesti che Tu sei la Dea
delle Dee, e Madre di ciò che qui è vivo,
e che mai nulla si sottrae al Destino?....
Erda, Erda! Oh Madre! Nella ragna ho letto
anche il tuo, e il nostro Fato. Il Ciel soccombe
dei folli Dei, e il Destino ‘l va a seguire,
e Tu, Madre di Vita, or sei la Morte!».
Ma Skùld aggiunge: «Madre, oh Tu, superna,
or vedi che accusiamo; e ingrato è il fio.
Ma poiché noi siam Figlie tue, oh Possente,
noi con Te andiamo a cercàr prepotente
Gloria, e Vendetta! E i Destini nefasti
vinceremo, se unite; e questo è certo!
Affretteremo quel che si dicea:
corrompiamo gli Dei, e il lor sacro rivo,
il quieto Reno, e diàm voglie a un meschino,
Alberigo, il feroce, egli, il Folletto!
Si schiuderanno agli Dei le orbe tombe,
e ciò che questo Iddio creò, andrà a morire;
e vinceremo noi, e Tu, oh sì, e la Sorte!
Ma il Nibelungo or corromperai Tu,
Erda, Erda! Oh Madre! E Dea d’un Dio che fu!».
E le Norne or svanìscon. Erda grida! E
sola rimane: oscura e irata e infìda!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Lunedì IX Novembre AD MMXV