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martedì 20 novembre 2018

La Gioia dei Mosti di Novembre

Il Nevischio

Cala il nevischio allo svanir di nebbie. E

mi sovvien allor la sera; e m'è d'annunzio
del verno che la sua labbia a me volge.

Oh nevischio... nevischio mio candore!

Figlio conteso del verno e dell'Autunno,
illegittimo il tuo nome sacrato

alla vergogna di queste stagioni!....

Prole di piova e di ghiacci vigliacchi,
nascosti nell'amplesso delle nuvole!

Illegittima brama de' i singulti

di Novembre che alluminano il cielo
di freddezza inumana e furibonda!

Oh nevischio... nevischio, freddo nido

degli aironi cinerin de' i campi
che tèmon tua gagliarda gioventù

di sì pasciuta neve! Oh mio nevischio!

che come brina scendi alle lanterne
della sera e di vie rese intristite 

dall'empia solitudine del vespro,

nelle qual io m'aggiro avvolto in manti
d'altrettanta mestizia. che al par tuo,

nel cuor mi covo, vagolando altrove,

nel seno de' i morbosi Sogni! Oh caro
nevischio! Ombra invernale su' i miei passi!

Fia così che la neve appressa tacita

a precipitar su' miei occhi assonnati.
Oh eco della bufera! Ahi triste!.... Oh Oblio 

della Notte perenne e del profondo

sonno di questo piccin, pìccol mondo!
Scuola russa dei Peredvizhniki (I Vaganti), Inverno, Tardo-Romanticismo russo, Fine Secolo XIX
Massimiliano Zaino Di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Lunedì XIX del Mese di Novembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

Il Brindisi autunnale

Può un sorso di vin buono in questa gelida
steppa di risaie rallegrar la sera?....
Bevi! Il suo liquor sorseggiando, oh Autunno!

Bevi i giambici versi della mia Ebe!....
E poi, ebbro, vai... va' a intristire la Notte,
a nevicare il tuo pianto d'ubriaco...

a prenderci per mano a ricondurci
a' tuoi covi segreti, ove Proserpina
dorme, Ade abbracciando, il rapitore!

Ma Novembre ora è stanco anche di vino.
La Luna bianca riflette la neve
che presto scenderà a coprir i tetti.

E noi ridenti alziam il nappo estremo
per l'eterno silenzio dell'inverno.
Scuola russa dei Peredvizhniki (I Vaganti), I Cosacchi, Tardo-Romanticismo russo, Fine Secolo XIX
Massimiliano Zaino Di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Martedì XX del Mese di Novembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

Fantasia norrena - Sette Rune

I. Freya scalda il vino che Froh le dà, il povero
burlone. Forse il menestrello brama
in cambio una delle sue eterne mele
che son pegno d'eterna gioventù.
Forse lo stolido aspira soltanto
a un bacio dalle sue labbra di fuoco.
Oppure vuol donare quest'ebbrezza
di dolci tralci alla figlia di Wotan.

II. Sulla scogliera Lorelei diffonde
lo sventurato canto; e legni e prue
consacra ai cari suoi abissi di Morte.
Non s'accontenta, infatti, del suo mosto;
ma vuol ber anche il sangue vagabondo
de' i timidi pescator di sue perle.

III. Freya ha ordinato che sia festa. Ma manca
la gioia del vino bevuto da' i corni
delle sacre cerbiatte de' suoi boschi.
Chiama il fratello Donner con sua dolce
suadente voce; e mentre il menestrello
con Loge litiga e contende un fuoco,
ella domanda: "Ma dov'è finito
il cacciator delle mie cerve? Il vino?".
Donner la guarda, le sogghigna e ride.
Poi risponde: "Ne' tuoi bei desideri!".

IV. Hundig abbaia, la Notte insultando
e di Wotan la stirpe abominevole.
Cieco è negli occhi abbagliati dal vano
fuoco di Luna.... Ha bevuto troppo!
Ha alzato al cielo più corni di quelli
che la Gioia del suo cuore richiedeva;
e ora, dinnanzi agli ospiti stranieri,
in mano tiene l'acciar di vendetta.
Per qualchedun non vi sarà più l'alba!

V. Beve Flosshìlde il vino di Novembre,
e una goccia s'appoggia al suo mento.
Le serve forse il bacio ripugnante
de' Nibelunghi? Quella lingua infame
l'ora non vede di solleticarle
appena sotto le labbra fiammanti
di giovinetta! Ma beve Woglìnde,
anch'ella! la maliarda pia Sirena,
il mosto giù mandando con il collo
e il petto un po' sollevato dall'onde
impudiche! E poi beve la sorella
Wellgùnde... su uno scoglio appen seduta.
Deh! guarda, Nibelungo! Il mosto
cola leggero sopra il suo bel seno.

VI. Giace con la nuca al petto ignudo
del risvegliante Eroe l'alta Brunnhìlde.
Sente il suo cuore che palpita ancora
a diletti commosso della carne
e dell'Anima prode. E poi lo guarda,
e gli sorride. Le ciocche di biondi
capelli appena le coprono il seno
ad Amor profanato da' suoi baci.
E Siegfried con la destra allor le mette
al labbro, dopo tanta Notte allegra,
il calice nuziale delle Dee.

VII. Erik osserva l'orizzonte esausto.
I serpenti del mar non l'han voluto
nel loro Regno d'ignoti naufragi.
Lontana sta la terra. Sembra un'isola.
Sulla collina le gagliarde viti.
Questa sera si beve il vino buono!
J. Doyle Penrose, Freya, Preraffaelliti, Tardo-Romanticismo inglese, Fine Secolo XIX
Massimiliano Zaino Di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Martedì XX del Mese di Novembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

Meriggio tra i Campi

Passo il meriggio ne' Sogni sconvolto.
Guardo la nebbia che viene e svanisce.
Siedo appoggiando le spalle a un covone.

Chi fischia le canzoni dell'Autunno
che baldo incede tra' campi mietuti?....
Chi sugge il fango dell'ultima piova?....

Penso!.... Odo l'urlo d'un'esule rondine,
il piccol becco che trema d'un passero.
Sento che il verno è prossimo a venir.

Oh Novembre!.... Sepolcro d'insepolti
vivi pensieri! Come mi sei freddo
per queste paglie umide di nevischi!

E mi è amara la spiga che ora al labbro
porto per assaporare il tuo declino!
Scuola russa dei Peredvizhniki (I Vaganti), Gli ultimi Boiardi, Tardo-Romanticismo russo, Fine Secolo XIX
Massimiliano Zaino Di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Martedì XX del Mese di Novembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.




sabato 17 novembre 2018

Il Mosto del Barbaro

Nebbie! sorgete, oh spettri di guerrieri!
Bocche di Villi da' bardi baciate,
cristalli di vendemmiata pioviggine!

Dianzi a' il buon mosto, intanto, da voi io lungi
giacio. E ripenso!.... Oh rosei vapor
del Crepuscolo! sìmili alle guance

dell'Ebe che sorseggio! Oh amica sera
che i ricordi del giorno mi divori
lievemente scaldandomi alla Luna!

Oh arpe che inneggiano al sepolto corpo
di Freia, l'estiva, fertile a' le fiamme
infinite del Sole! Ahi, canto funebre

che Skàdi evoca alla Vànir dormiente,
mentre il nevischio annunzia il nuovo inverno!

Ho freddo, oh nebbie! E la mia landa immensa
sotto i miei occhi inghiottite. E penso. E piango.
Oh foglioline indispettite a' vischi

per le falci de' Druidi dell'Autunno!
Oh corpicini secchi che insepolti,
poiché inumani, le Valchirie évitano

nel lor guerresco volo! Oh tintinnar
di rigide ocra reliquie di querce...
oh fulvi rimasugli de' bei pioppi!

Oh cimbe di fogliami remiganti
sulle più sacre ripe dell'Arbogna
've il mio calice accoglie il vin selvaggio

degli acerbi vitigni! Oh Erda... Erda, Dea
di questa addormentata, empia Natura! 

Hai tessute le spoglie delle Figlie
delle onde de' torrenti! il dolce ventre
a Freia hai donato! Hai splasmata

la cetra urlante di Lorelei che urla
fino a farsi sentir tra queste brume,
bianche regine del mio freddo Nord!

E ora io godo del tuo vino mietuto
dal correre del tempo che lo invecchia -
ei immortal, io dannato a estremi spiri!

Brindo a te, allora, oh Natura pallente,
cui sopravvivo al momentaneo sonno
per avere nel cuor i tuoi gai ardori!

Brindo a te, e immergo il nappo a' la mia bocca,
e avrò qui forse un po' di caldo, allora!

E penso! E bevo!.... Froh! non hai scordato
il mio desiro di coglier la Gioia
baciandole ne' Sogni ansanti labbra?....

Ma odo che sempre più la piova cade,
e il meriggio mi pàr sempre più breve,
donde qui a me ei rapisce ore di Vita.

Così svelto sovvien, infatti, il vespro,
e presto si svanisce il sacro fuoco
del mosto di novembre in mia ogni vena.

E mi rimane l'eterno cordoglio
che de' bardi ferisce il cuor che duole:
il Sogno! Ombra che appena all'alba muor.

E so che in questi brividi di sera
il nido intesse questo oscuro Fato!

Gustavo Simoni, L'Istoria del Menestrello, Tardo-Romanticismo italiano, Fine del XIX Secolo


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Sabato XVII del Mese di Novembre dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

lunedì 12 febbraio 2018

The Last Rose of Summer - Il Canto di Tannhäuser

Assaporerò io forse i vostri acciari,
e il Sole a mezzogiorno li vorrà
alluminare tinti del mio sangue;
e la vergogna e il disonore apprenderò
nel peregrinàr mio. Questo è il Destino!
Forse voi mi chiamate cavaliere
perché io possa sfidàr le vostre leggi?
Sono forse un Titano baldanzoso?....
Voi non sapete sì fitto mistero
che in fosche grotte mio cuòr ansio attende
tra i Sogni delle Idee e gli incubi eterni;
né mai avete veduta Freya, la Dea.
Non è vero?....
Vorrete bèrmi ogni stilla del sangue
che voi chiamate immondo e menzognero,
che d'insulti coprite... voi, e i pugnali!
E mi trafiggerete così irati
perché ne' lor torrenti ho abbandonate
le follie e le chimere, Freya e le Ondine,
e l'Ideale rabbioso e dolente
per Amòr di sì mortàl fiorellino.
Dite! mi trafiggerete, oh superbi?
Non è vero?....
Ogni lama sarà contro il mio petto,
mi segnerà una croce sulla pelle,
e tòrmi l'Anima ardirà cotanto
per il lamento di me, un Trovatore,
che, non volendo, vi disfìda, oh bruti,
dove l'incauto ardòr che serbo dentro
furiosamente udito avrete! è il Fato!....
Io piango!... piango perché non capite
l'arpa mia che s'è sciolta tintinnando
come pioggia d'argento per la giòvine
rosa perduta dell'Estate mia,
o il mio silenzio d'eccesso funesto.
Dìtemi! non ho declamato niente?
Non è vero?....
Se mai potessi vòlgere alla rosa
un cenno, un bel saluto, il mièl di un'ode,
dìrle: Fèrmati, oh fiore!... e lì beàrmi
sol d'un suo sguardo, un'altra volta,
vedèrle i pètali in oro gemmati,
e contemplare il casto labbro suo!
o cantàrle una stanza trobadòrica
da' i cortìl del castello, nella Notte,
sotto il verone suo, al buio, prottetto, incògnito
cantore e cavaliere, e ardito e prode!
Ma vedrò i vostri acciari; e fia il silenzio.
Non è vero?....
Eppùr dirò che questa rosa eterna
più di Freya splende e più del Sogno e d'ìncubo;
e con le spade vostre a me dirette e aguzze
piangerò ancora per la lontananza
che da codesto fiore Iddio m'impone,
onde il mistero resterà con me,
a tradimento trafitto e discolpato.
Ma com'è mesta mia Vita al stèl lontano!
Come nervoso si fa il mio silenzio!....
Mi perdonerete, oh voi, oh cavalieri?
Non è vero?

Jacques Clément Wagrez, Illustrazione di Tannhäuser nella Grotta di Venere, Tardo-Romanticismo francese, Seconda Metà del Secolo XIX


Massimiliano Zaino di Lavezzaro, Mia Registrata, in Dì di Lunedì XII del Mese di Febbraio dell'Anno del Signore Iddio Gesù Cristo, di Grazia, di Fede e di Pace AD MMXVIII.

martedì 9 febbraio 2016

Das Freyalied - La Canzone di Freya

IX. Preludio poetico e Divertissement tragico. Il Lamento di Lorelei

S’appressa Freya agli Dei e alle Dee e alle Grotte
loro, e in cuor suo fors’ella or piange al Reno,
e anche se ammira le rocce sublimi,
qualche stilla di pianto in viso appare,
e mestamente ei scende al peplo e al fianco,
ella ignara dei tetri eccessi e oscuri
del Re dei Nibelunghi, e delle sue
nebbie, Pòpoli infami di Fantasmi,
ed ella qui salendo su’ altre pietre
presto sarà dinnante al padre Wòtan;
ma prima volge a un dirupo scosceso
e all’Elfo chiede un attimo di requie
tant’ella vuol miràr il paësaggio:
le valli e i boschi, e le foreste, e l’ombre
del suo adorato fiume, e allor si siede
e lietamente contempla d’intorno.
Del resto è ancor lontana l’orba Notte,
e giù… e giù… là, in convalle, al scialbo seno
suo la compagna Lorelei e a quest’imi
sassi la cetra appoggia, e a lagrimare
va, lamentando con un canto stanco
il furto del suo argento, e ai flutti or duri
di Fato insano ella chiama le prue
a infrangersi dei fulmini, orrendi spasmi
di lamentevoli orrori, e per l’etre
costoro vanno… e vanno… verso Wòtan,
ma invano e tanto, un cantàr cupo e offeso,
e un maledìr ad Alberico: l’esequie
pe’ un Re che vive in un vecchio miraggio
di nebbie furïòse e di penombre.
E Lorelei a gridàr ai Ciel non cede,
voce rabbiosa d’un deluso giorno.
Ma nemmanco l’amica Freya la ascolta,
tant’è lontana la celeste Vôlta.

«È venuto il crudele, il Nibelungo!»
ella lamenta: «Oh Dei, ascoltate! L’empio
è venuto: il crudele, il Nibelungo!
Con l’inganno ha rapiti i nostri argenti,
cercò ghermìr le nostre Ninfe ignude…
oh! ascoltàte i lamenti nostri, oh Dei!
Canto io per le tre Figlie del mio Reno:
per Flosshilde, e Woglinde e poi Wellgunde;
elle ingannate piangono, e or smarrite
giacciono e temono e ira e patimento,
perché non son riuscite a custodìr
l’oro del Padre, e hanno or tanta vergogna.
E il Nibelungo allegramente sogna,
e già gli par dell’orbe divenìr
Sire possente, e irride al rapimento
che su di noi ha versato… noi, assopite
Onde e Fanciulle, e Ninfe e Lorelei….
Antiche Posse della Terra, il seno
mio udite e il suo soffrìr date agli Dei!
Maledizione sulle Nebbie crude,
e sul lor Regno di Destino e vento!
È venuto il crudele, il Nibelungo:
furbescamente ei ci fece uno scempio.
È venuto il crudele, il Nibelungo!
Oh Fulmini e Säètte, oh Voi, inoltràtevi
tra questa nebbia di Morte e di Vermi,
e consumate il soglio all’empio Re,
e con le vostre assai robuste membra
riportàteci l’oro che ei ha rapito
per fonderlo in un Anello di suo Odio!
Oh Fulmini e Säètte, oh Voi, inoltràtevi
là, e sterminate gli Gnomi e i lor Germi,
là… dove Notte eterna e oscura v’è,
e ‘ve Alberico il suo Dominio tempra,
ombra d’un Fato cupamente avìto:
è un artiglio del Male, è perenne Odio!
Oh Fulmini e Säètte, oh Voi, inoltràtevi;
e obbedite se non ai nostri Dei,
a me… Fanciulla, e a questi detti miei!».

E Lorelei su’ un scoglio allora sale,
e i nembi osserva, volgendo i suoi seni,
e il ventre suo di pianto incinto e gonfio,
e ella agitando le sue gambe fresche,
e arrossendo di rabbia e di furore,
e suona… e suona… e trilla cupamente
le corde aguzze dell’arpa fatata,
ordìta un dì dalle prue delle cimbe
degli Dei e degli Eroi affogati e morti,
e dai legni annegati delle querce,
e dalle perle e dall’albe conchiglie,
donde si erge un nebbioso e tetro suono
che sembra or cetra e ora un gridàr di corni.
E Lorelei lamenta ai tristi stormi
dei pàsseri che fùggono da un tuono,
e furiösamente apre le ciglia
verso le sponde dei funebri salici,
e nel suo canto sono i suoi occhi assorti
nelle più infami Furie delle nubi;
e la sua mano destra è concitata,
e trilla… e trilla… spaventosamente,
e dal suo trillo emana ella il suo orrore,
e gli Elementi dominati e freddi:
e il vento, e l’aria, e il tuono e il prode fulmine.
E questi suoi Elementi vanno ai Cieli,
e il mesto canto sale… e sale… e sale.
Allora ella suonando una ballata
sempre più cupa si fa e più stregata.

«È venuto il crudele, il Nibelungo!
Ha denudato i nostri bei fondali.
È venuto il crudele, il Nibelungo!
Ei tempra nel segreto inganni e mali»
ed ella i denti digrigna sdegnata,
e ancor più in Furia arpeggia le sue corde,
e invoca la Natura e le sue posse,
e non più una fanciulla sembra, ma è
una strega d’un Fiume in pieno sdegno.
«È venuto il crudele, il Nibelungo!
Ha denudato i nostri bei fondali.
È venuto il crudele, il Nibelungo!
Ei tempra nel segreto inganni e mali.
Furie del Reno e della mia Natura,
udite l’arpa mia, e il mio pianto audace,
e l’onde alzate contro il Regno orrendo
della Notte e delle Ombre, e distruggete
l’indomabile stirpe degli Gnomi:
quest’arpa trilla gemiti di Morte,
e di vendetta! Oh maledetto Gnomo!
Oh! Senza l’oro quant’è fatta oscura
quest’onda mia, e la ripa è senza pace,
e poca gioja d’intorno io ora intendo!....
Ma perché di Vendetta ho io questa sete?
Ahi, perché maledìr i loro nomi?....
Perché… ah, perché, oh miei Dei, quest’empia Sorte?....
E noi Fanciulle, e Ondine, e Ninfe andremo
a trascorrere i giorni nostri e i vespri
prive di argento e di oro, e dei monili
nobili, e di codesti brillamenti
tra le acque nostre, qui, sempre più ignude,
noi domandando perdono al Re nostro,
e al nostro Padre, senza più ricchezze,
dove fu un Sogno la nostra lussuria,
la bellezza dei nostri ameni corpi,
quando nessuno, ahimè, ci amerà più,
qui, e in un segreto di Amore è il morìr!
E noi Fanciulle del Reno or saremo
orride streghe coperte di vepri,
lungi dai dì festosi dell’aprile,
e dai ridenti e dolci abbracciamenti,
e dalla Vita che è un Sonno che illude
chi tanto affida sé a un dorato rostro
di concitate e perenni dolcezze,
e alla beltà e all’argento e alla sua Furia,
e sempre ignudo e mesto il nostro corpo
nessun, ahimè, nessun ci amerà più;
e in un segreto di Amore è il morìr!».
Or la Fanciulla dell’arpa rimpiange
così i suoi quieti adamanti svaniti,
e singhiozza, e sospira, e l’ira mùtasi
in soffocato pianto e in contristato cuore,
e lì in sollecitate orme di làgrime,
e piange… e piange, e invoca ella ogni nembo
con il suo tracotante Nume ubriaco,
bellezza arcana primigenia, or rimasta
disillusa e tradita da Erda stessa,
e chiama… e chiama l’amica Freya, invano
poiché costei non può sentirla al monte
suo. Oh povera Fanciulla! Piange… e piange,
e se avessero un’Anima, i suoi liti
piangerebbero anch’essi, e i tutti Ocèäni
primigeni e commossi. Oh qual dolore!
Ella ancor maledice le torve Anime
dei Nibelunghi, ma dolce è il suo grembo,
e la sua voce, non più è al par d’un Draco,
la Serpe orrenda e maligna e nefasta
nella qual Alberico si confonde,
quando è temuto e cercato, ei, il sovrano
della Nebbia, e dell’Ombra e della Morte.
E così Lorelei qui si lamenta,
mentre Freya le convalli ne contempla.

«Oh Flosshilde, oh tu, oh cara» ella ora dice:
«Canta anche tu con me… canta e dispera!
E tu, Woglinde, lamenta il tuo Fato,
volgi agli Dei, agli Dei vòlgiti e narra!
Oh Wellgunde, tu pur canta e lamèntati,
piangiamo insieme sul nostro Destino!
Canta anche tu con me… canta e dispera!
È giunta presto la temuta sera,
e il pomeriggio si è fatto meschino….
Canta, Woglinde, canta ai Ciel, soffèrmati
sul tuo giaciglio dell’oro privato…
canta anche tu con me… canta e dispera,
oh Flosshilde, oh tu, oh cara» ella ora dice.
Oh Lorelei, eternamente infelice!
«E qui nessun… nessun più ci amerà…
e il nostro cuor nel Reno affogherà!
Oh bellezza tradita… oh sì, tradita!».
E mentre il canto singhiozza e prosegue,
Freya sulle vette il suo Destin insegue.


Massimiliano Zaino di Lavezzaro

Martedì VII Febbraio AD MMXVI

lunedì 30 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

VIII. Preludio poetico. L’Idillio delle Vette

E Freya e l’Elfo sen vanno verso il Regno
dei monti degli Dei e delle lor Dee,
dove grida la lancia dei superni
patti di Wotan, e di Fricka il pianto
sui folli ardori dell’infedèl sposo.
E vanno… e vanno per sentièr ombroso,
timidi e muti, l’un l’altra d’accanto,
e i vàlichi ne sàlgono - quei eterni -
tra i lieti boschi e i stagni di ninfee,
l’Elfo compiendo il meritato pegno.
E nessùn conosce dell’indegno
Alberico le gesta oscure e ree,
e vèggonsi dei scorsi e antichi inverni
d’intorno i ghiacci, e gli imi e tenui colli;
e tra le nebbie e le nubi dei monti
l’ombra s’ammira del Reno divino,
donde le Ninfe lamèntano invano. E
quest’ombreggiàr or sen va più lontano,
e svanisce tra il faggio, e il sterpo e il pino.
E a Freya e all’Elfo si schiùdon gli orizzonti
delle montagne primigenie e molli.
Sempre silenti e con i passi folli
costòr pàssano or gli antri e i lignei ponti.
Così d’intorno non hanno che cime
lievemente innevate e maëstose,
e ora sàlgono… e sàlgono più in alto.
Sulla vetta più immensa sta lo spalto
degli Dei fatto di grotte e d’ombrose
pietre; ed è il Regno divino e sublime. E
scòrrono i rivi e i torrenti sull’ime
vallate e sulle foreste rocciose.
Così Freya ammira le montagne, e muta
l’Elfo seguendo coi passi procede
senza fatica sulla pietra, e scruta
l’alpìn sentiero che dinnante ei incede,
roccia selvaggia che è ancestrale e cruda.
D’in su’ un dì solo ell’è nata e vissuta,
e allor meravigliata intorno vede,
e i monti apprezza, mentre l’Elfo sputa -
affaticato or dal vino e dal piede -
selvaggiamente sulla terra ignuda.
E Freya contempla i castagni e gli ontani,
e i faggi e i canti dei lor uccelletti,
e nei boschi gli alberghi dei buon Nani,
i divi Gnomi sotto i salci freddi. Ed
è questo il loro bosco: i bassi aspetti
le fanno inchini e dìcono d’arcani,
e poi si còpron sotto i loro tetti,
le foglie antiche dei ramoscèl secchi.
E Freya ancòr sale… e sale e giunse al passo
dell’Alpe dove si geme pel lasso,
e qui si schiùdon tremende e funeste
delle Valchirie le triste foreste.

Sièdon le donne sulle rocce sante,
avvolte in manti di pelli e di penne,
e sopra i pepli tèngon l’armature,
gli usberghi ferrei sul petto e sul seno,
e con le destre impugnano e alabarde,
e fredde lame e irrisori pugnali,
e lungo i crini gli elmi della guerra,
e sotto, i volti guerreschi e gentili,
e altre bèvono le resine amare
delle querce fatàl, delle betulle,
e ivi cantano… e cantano alla Morte,
Furie soävi del truce Destino.
Ed esse sono belle e sono tante,
e brìndano coi corni delle renne,
e dòminano fiere queste alture,
ed esse son protettrici del Reno.
Hanno mantelli oscuri, e fulve barde
tinte del sangue dei Prodi mortali,
e solo un loro sguardo un Eroe atterra.
Apprezzano i valenti e non i vili,
e allòr sàlvano i primi dalle bare,
terrificanti e furiose fanciulle
che agli orizzonti e su’ in ciel son assorte,
Figlie di Wotan, possente e divino.
Còrron pei boschi e sèllano i destrieri,
e vanno… e vanno alla caccia dei cervi,
e dei cinghiali, in man gli archi funerei,
dove le fonti zampillano quiete,
all’ombra dei castagni di montagna,
affamate di vittime e di fiele.
Saltèllano… e saltèllan pei sentieri, e
i desti sensi son qui i loro servi,
occhi acquitrini e celesti e cinerei,
e fiuto che di sangue ha sempre sete,
e labbro che di sangue ognòr si bagna, e…
e questo sangue è come ambito miele.
Ma pur costoro s’inchìnano a Freya,
ed Erda, Erda - oh Erda! - più truce ne abbaia.

«Freya, non temère! Presto arriveremo!»
l’Elfo sogghigna alla tremante Dea.
«Freya, non temère! Presto arriveremo!»
ancòr aggiunge ei a quel fior di ninfea;
e poscia il bosco di queste Valchirie
ulula un lupo che vive di giorno. Uh! Uh!
Ella ingenuämente ha un po’ paüra, e
d’ogni Valchiria e del ghigno ululante.
Ma nel frattempo d’ogni senso è amante:
di ciò che mira e sente, e di Natura.
Forse va rimembrando il fresco Reno,
e le tenzoni con Lorelei, e i canti;
ed ecco che qui v’è l’arcobaleno
che degli Dei le annunzia e l’antro e i vanti.
E l’iri è bella, e ordita d’adamanti,
della Notte e del giorno è una lucerna,
d’Erda la creätura più superna,
d’Erda infame, ingannatrice oscura.
Or Freya contempla la vicina altura,
delle divine grotte il soglio urlante.
Oh quant’è ingenua, e lieta ell’è dinnante,
ella, sì, delle Dee la Dea più pura.
«Vedi quegli antri che stanno sul monte?
Sono le regge dei nostri fratelli.
Vedi quegli antri che stanno sul monte?
Degli Dei sono i sassi ardenti e belli».
E poscia il bosco di queste Valchirie
ulula un lupo che vive di giorno. Uh! Uh!
E Freya s’appresta a conòscer gli Dei.
Erda, Erda, oh tu Erda! Libera i tuoi Rei!


Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Lunedì XXX Novembre AD MMXV

domenica 22 novembre 2015

Das Freyalied - La Canzone di Freya

VII. Melodramma: La Maledizione di Alberico

«Chi di voi tre fors’anche brama un giorno
esser mia sposa, e con me la regina, e
condividere e regno, e trono e letto,
dove la nebbia regna ed è impetuosa?
Vieni, oh tu, oh dama, qui, tra le mie braccia,
qui… coperta dai baci miei gaudenti!»,
dice Alberico, il crudèl, cuor impuro
le nuche divorando delle Ondine,
famelico sentìr d’istinti e sensi,
e ripensando ei le forme gentili; e
già esse, le Ninfe, pensano a uno scorno,
e follemente Erda ora le addestina
a vendicarsi del Re orrendo e schietto.
Oh Possa infame, tremenda e furiosa!
E il Nibelungo in cuor ripete: «A caccia!»,
e i ghigni suoi si mostrano irridenti,
spettro vivente d’un insieme oscuro
di tenebre e di notti, e nebbioline,
e ignobili sorrisi e sguardi intensi,
ombra dell’ombre, egli è il Re dei più vili.
«Chi di voi tre fors’anche brama un giorno
fònder sue carni con le mie voraci, e
godèr nel cielo della Nebbia eterna,
essere primigenia d’una schiatta?
Oh Ninfe, a che tacete? Non son degno
forse dei vostri visi angelicati? O
solo temete la mia barba lunga
e folta? Anch’io ho il diritto dell’Amore, e
ebbro inebriàr il cuor sul vostro cuore;
e qui m’aggiro. Non v’è Nibelunga,
e non ho spose, io, Re dei disprezzati
Gnomi del vespro, di Nebbie il vil Regno;
e Re, Re! schiavo sòn di brama matta:
ghermìr la vostra carne, la superna
bocca delle onde, oh boccucce di baci!»;
e ascoltando le Ninfe in disperata
posa, serene fanno una risata.

«Oh voi irridete, lische, il Sentimento
mio, che in ira si muta e vi percuote!
Qui, qui nell’onde verrò: e già vi afferro, e
non potrete sfuggìr ai baci miei, e
nude Sirene senza cuor! Oh pietre!»; e
sì il Nibelungo urlando e lento, lento
quasi s’addentra tra l’acque più immote,
e verso le fanciulle va, lo sgherro,
bestemmiando il Destino e pur gli Dei,
avvolto in spire nebulose e tetre,
e nel suo guazzo fùggon impaurite
le meste Ninfe, le man sue evitando,
polpi ghermenti, e furia animalesca,
e scagliandogli fredde onde di sprezzo,
mentr’egli grida rabbioso e baldante.
Così le Figlie del Reno fluttuante
ben più scaltre ne fùggon ogni vezzo,
ma ora fuggendo mòstran la donnesca
forma che certo il bruto non fa blando,
e hanno le guance umiliate e arrossite;
donde non svàmpan le brame infinite
del Nibelungo più rozzo e nefando.
E quegli è terso, e il sacro fiume infesta,
impunito dal cielo e dagli abissi,
e preme i santi scogli e i suoi cristalli.
Preme i fondali con i tristi calli,
e sulle sue fuggenti gli occhi ha affissi,
e tra quest’acque corre, ombra funesta.
E solo il senso sta nella sua testa,
e le conchiglie schiaccia e i loro ricci.
Ma le fanciulle, andando or con più flemma, e
ora arrestando, hanno uno stratagemma.

Qui Woglinde s’immerge e chiama il crudo,
e lo persuade con voce maliarda:
or lo chiama per nome, lui, Alberico,
e provocante gli porge le scuse,
e vêr di lui distende il suo mancino
braccio, e col destro - ahi lui! - se lo accarezza,
oh delicatamente! e tante volte,
e ora gli mostra le spalle e le ascelle,
e tra una sua carezza e un’altra il petto,
e cantando e cantando, oh fior soäve,
il bruto attira, e ‘l porta a sé dinnante.
Allor lo Gnomo verso questo nudo
e folle inganno s’inchina. La guarda!
Ella ripete: «Alberico! Alberico!»,
e canta, e canta… sulle cornamuse
del fresco vento, un inno che è divino;
ed egli non comprende che ‘l disprezza,
e a lei avvicina le chiome sue folte,
e quasi le solletica la pelle, e…
e finalmente ei giace al suo cospetto,
e l’ammira… l’ammira, le dice: «Ave!»,
sogna ingannato d’esserle l’amante.
«Alberico! Alberico! Vieni! Oh vieni!
E ti darò sul labbro un dolce bacio,
come tu sogni nel tuo desiderio; e
ti cingerò con queste braccia mie,
e tu mi prenderai, e mi porterai
nel tuo Regno di Nebbie, e io sarò sposa
tua, e per sempre, oh Alberico! Vieni! Oh vieni!
Perdona se ti ho offeso! Vedi? Giacio
solitaria e piangente, e tu, lì, serio
tosto mi scruti. Ah perdona le rie
gäie parole! Guarda! Senti! I lai
della mia bocca, odorata di rosa!»;
e così il Nibelungo ora le crede,
e a lei vicino s’avanza contento,
e cammina… cammina, e qui procede;
e Woglinde gli soffia un dolce vento
con le sue labbra di fiori d’aprile,
un fumo, esso, un vapore che sul mento
del Re brutale si posa gentile;
ma ecco che il Fato conosce quel vile!
La Ninfa, allora, la barba gli afferra,
e tira… e tira, lo scaglia per terra,
e poscia un poco lentamente scappa
lungi dal folle dalla negra cappa.

Ei sta per maledire ed è infuriato,
e quasi muove i suoi piedi a vendetta;
ma Flosshilde ora emerge, e porge il seno:
prende una stilla, una goccia dell’onde
che sulle forme va scendendo, e lieta
con l’indice fatale l’accompagna,
lungo le carni montuose di dama,
e accompagnata la goccia nel fiume,
veloce immerge la nuca e riemerge
ella, divina, e sorride allo Gnomo
che tanto ha fame, e non scorge ei altro inganno,
follemente perduto e istintivo.
Ella, Flosshilde, nuota e sguazza, e il rivo
agita - e molto! - e si finge in affanno,
e fissa il Mostro, l’Orco, il putrido uomo, e
con una goccia ancora il sèn si terge,
e il suo occhio azzurro brilla d’un bel lume,
bellezza primitiva, e ingenua, e arcana;
e sguazzando… sguazzando ancòr si bagna,
‘ve nel suo cuor non v’è grazia né pièta,
poscia si aggiusta le trecce sue bionde,
e già ai piedi del bruto sta. Ahimè, oh Reno!
Ed ella è dolce, soäve e diletta,
ed egli ancora si mostra stregato.
Flosshilde è giunta, e sul petto si stride,
con la man destra, ove palpita il cuore,
appena sopra il seno, e alzando il volto
dice: «Alberico! Alberico! Ah! Qui bacia
dove m’ha punta un’ape con il miele;
qui, dove il fuoco si acceso impetuoso
per le tue labbra che vogliono amare!
E sarò grata per sempre, e verrò
a Nibelheim con te, oh Re, io tua regina!».
Così Alberico lieto le sorride,
e già s’infiamma di funesto ardore,
e allor s’immerge e a lei vicino molto
al suo bel seno avvicina la faccia,
e ancor non sente il profumo del fiele,
e sul labbro prepara un tempestoso
bacio su quelle pelli che son chiare,
e già lo schiocca, egli, il beffardo. Oh no!
E Flosshilde si mostra più meschina.
Presa dal fiume una rigida perla,
prima del bacio, ecco! Gli dà una sberla.
E fugge… fugge, lo Gnomo irridendo,
il qual sogghigna malvagio e tremendo.

Giace Wellgunde su uno scoglio ignuda.
Con dei capelli e con quattro legnetti
ha appèn plasmata un’arpa leggiadra,
che lieve suona amoreggiando all’aria,
e l’orizzonte inebria d’un suo canto
che verso il Nibelungo accenna un suono
forse di grazia e di compatimento,
gorgheggi molli, melliflui, donneschi,
ditirambi agili e festosi carmi,
distici quieti, labbra urlanti, e carni
gentilmente danzanti, ed elegie:
«Weia! Waga! Waga! Amòr che infame Dio!».
Giace Wellgunde su uno scoglio e cruda
più delle sue sorelle. Oh i divi aspetti!
Di caldi sensi ella - oh sì! - ella la ladra,
interamente emersa e solitaria,
e col suo ignudo corpo trae d’accanto
il Nibelungo, al qual l’ultimo tuono
s’appresta; e allegro, allegro… e lento, lento
ei lì s’avanza a quei sèn che son freschi,
ancora vinto, e senza ira e senza armi,
ascoltando le gaudie Poësie,
ignorando l’estremo, ultimo fio.
Wellgunde è forse la più bella Ondina,
fors’anche ancor di più di Lorelei,
e qui cantando il labbro a bacio muove,
giuocando con il vento e con il Mostro,
e il corpo mostra, ella, divinamente.
Vanno i suoi versi delicatamente
per tutto il Reno, inebriato di mosto.
E tu Alberico, ancor, ancor li udrai!
Erda frattanto governa e destina!
Ecco: Alberico viene e s’avvicina,
e intenso ascolta i caldi e urlanti lai.
Allo scoglio s’aggrappa, e bacia il ventre
di Wellgunde che finge e che l’äiuta
ad andàr presso il viso. Oh Gnomo, il nano!
Ei le bacia le braccia e poi la mano,
e l’arpa prende, scaglia, ed è perduta,
e il labbro pone alle labbra sue; e mentre
il bacio sta schioccando ella lo morde
e nell’onde lo scaglia tra l’ansie orde.
E il Nibelungo ora la maledice.
Ma ecco del Sole una fiammata altrice!

Alberico in sgomento sta in disparte,
e va a una riva, e scruta e guarda e attende,
dei suoi inganni pensando all’orrida arte.
Dall’alto il Sole sul Reno discende,
e illumina i fondali ov’è l’argento,
e il luccicàr dell’oro il nano apprende.
Erda invisibile, Erda, dice al vento
che l’onde sposti, il tesoro mostrando,
e le ubbidisce allor ogni Elemento.
E così ad Alberico, empio, il nefando,
del Reno l’oro compare in fulgore,
e nessun lo difende con un brando.
Del Nibelungo nel lugubre cuore
non v’è più la passione ma il furore;
ed egli chiede: «Oh Ninfe, dite: or come
avèr si può così tanta opulenza,
com’io possa ghermirla e lì portarla
a Nibelheim, al mio regno di brume!».
E le Ninfe, distratte, ed ebbre quasi,
dal Destino incantate, oh Erda la belva!
gli rispondono insieme: «Oh Nibelungo
maledicendo la Possa d’Amore!
Colui che avrà il coraggio di tal gesto
libero avrà ogni varco a questi argenti,
e seminando l’Odio, invitta serpe,
ei godrà d’un Potèr che sarà immane,
più forte questo d’ogni Dio possente,
e il mondo intero, frutto di Erda, avrà.
Oh Nibelungo, non la maledire!».
Ma egli Alberico alle commosse chiome
delle fanciulle inebriate e in demenza,
furiosamente va, e va… va a invocarla -
la Possa santa - e senza senno e acume,
e verso gli ori dai suoi sguardi invasi,
e ivi chiamando a testimòn la selva:
e ogni suo fiore, e ogni salce, e ogni fungo,
ecco, egli maledice, ahimè, l’Amore.
Le Ninfe si ridestano e hanno mesto
lo sguardo ora impietrito, e intorno i venti
con lor combattono e le vìncon. Serpe
oh Erda, oh Erda sei! e le Ninfe son lontane,
e lo Gnomo s’avventa irriverente
sull’oro che gli spetta. Ahi, oh eredità!
E scansano le Ondine ei va a frinire.
Flosshilde, ahimè, Woglinde e poi Wellgunde
veloci accorrono e contro il crudo
vanamente combàtton. E ombre in nebbie
d’Anime morte dei re Nibelunghi
accorrono al servizio d’Alberico,
lasciati i lor sepolcri, e rùban l’oro.
Flosshilde, ahimè, Woglinde e poi Wellgunde
fuggire scòrgon con i suoi, lui, il crudo,
verso il dominio della Notte in nebbia,
nell’antro fosco dove i Nibelunghi
i servitori sono d’Alberico,
piangono, e piangono insieme e qui in coro;
e cercano di urlare ai loro Dei,
pallide in volto, scomposti i capei.
L’empio ha rubato il sacro oro del Reno.
Ahi qual s’appresta del Fato il veleno!

Massimiliano Zaino di Lavezzaro




Domenica XXII Novembre AD MMXV